Micol Todesco, ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Mettendomi a scrivere della famiglia di mio padre, Paolo Todesco, i miei pensieri girano intorno al bel ritratto ad olio che stava appeso in casa della nonna. Da piccola non avevo dubbi: la bambina che sorrideva dalla tela ero senz’altro io, anche se non ricordavo affatto l’abito bianco, e quel fiocco così grande fra i capelli.
Diverse persone hanno dovuto spiegarmi, a più riprese, che no, le cose non stavano così. Oggi so che si tratta di mia zia Luciana, sorella di papà, ma all’epoca non ne ero affatto convinta.
La Giornata della Memoria si avvicina, e mi accorgo di scrivere con una certa titubanza. Non sono poi così sicura. La sensazione prevalente è l’imbarazzo, un senso di assoluta inadeguatezza. Mi sento fuori luogo. Come posso scrivere di questo?
Io non c’ero. Non l’ho visto succedere, non l’ho sentito sulla pelle. La mia vita, il mio lavoro di ricerca, il benessere e la sicurezza dei miei figli non sono mai stati messi a rischio da leggi emanate dal mio stesso Stato. Non riesco nemmeno immaginarlo, figuriamoci scriverne.
Nella mia testa prende subito forma un lungo elenco di ottime ragioni per cui farei meglio a soprassedere. Tanto per cominciare, a dispetto del nome e del cognome che porto non posso dirmi ebrea: la discendenza ebraica mi arriva dal padre di mio padre, sono nata e cresciuta in una famiglia cattolica e oggi sono convintamente atea. Della grande tradizione ebraica non conosco quasi nulla. E poi quel nonno, di cui vorrei raccontare, non l’ho mai conosciuto. Morto prima che io nascessi, il suo sguardo ha raggiunto noi nipoti solo attraverso la foto incorniciata sopra al pianoforte. Abbiamo certamente sentito parlare di lui, ma in realtà pochissimo, pochi aneddoti, di solito racchiusi in frasi brevi, scarne. Frammenti. Troppo poco per ricomporre e restituire un’intera esistenza, peraltro senza neppure disporre di competenze storiografiche.
Mi pare, insomma, di essere troppo distante dai fatti, scollegata.
In fin dei conti, mi dico, questa storia non riguarda me, direttamente.
La frase sgorga spontanea dal filo dei pensieri, mi scivola dalle dita e prende forma sul foglio, senza che io riesca fermarla. La rileggo, appena un rigo sopra, e mi gela. Ho scritto davvero non mi riguarda?
Ripenso a mio padre, alle sue sorelle, ai suoi fratelli. Penso alla foto che li ritrae insieme, su due file e in rigoroso ordine d’età. Nessuno di loro è più qui, per raccontare.
La prospettiva nella mia testa si ribalta e il dubbio si capovolge: forse scrivere di questo non solo è possibile, ma perfino utile a tenere insieme quello che è stato con quello che sarà.
Ripenso alla bambina del quadro e le sorrido. In quello spiraglio irragionevole in cui riesco a vedermi ritratta nel quadro prima ancora di nascere, trovo l’intenzione e il desiderio di scrivere di loro, che è un po’ scrivere anche di noi.
Ecco allora quello che so, quel poco che ho imparato su mio nonno Giorgio Todesco.
Giorgio Todesco nasce a Firenze il 9 giugno del 1897, figlio di David Todesco e Giulia Castelfranco. Ha l’età giusta per partecipare alla Grande Guerra e per questo riceve una medaglia al merito. Di ritorno, frequenta i corsi serali che l’Università di Bologna ha organizzato per i reduci, mentre di giorno si mantiene facendo il commesso. Si laurea in Fisica il 14 luglio del 1921 e l’archivio dell’Alma Mater mi consente di scoprire il titolo della sua tesi di laurea: “Sulla variazione dell'intensità di corrente di scarica in tubi a vuoto, dovuta a variazione di temperatura. (Esperienze relative all'Aria, all'Idrogeno e alla Anidride Carbonica)”.
Proprio nel 1921, viene chiamato ad occupare la cattedra in Fisica Sperimentale che era di Augusto Righi, il Professor Quirino Majorana, fratello del più conosciuto Ettore. La collaborazione con il neo-laureato inizia subito e si consolida nel tempo. Giorgio Todesco è menzionato come assistente e aiuto di Majorana e tiene diversi corsi di insegnamento.
Nel frattempo, nel 1924, sposa la nonna Giuliana Banzi (Figura 1). Lei è cattolica, viene da un’antica famiglia bolognese che, nei racconti familiari, si fa risalire fino dalla Beata Giuliana Banzi vissuta nel IV secolo e benefattrice di San Petronio, patrono della città.
Fra il 1925 e il 1938 avranno 6 figli: Marisa, Luciana, Carlo, mio padre Paolo, Piero e Silvia.
Nel 1929, ottiene la libera docenza in Fisica Sperimentale e nel 1935 riceve l’incarico di insegnamento in Fisica superiore per la Facoltà di Scienze (Figura 2). Figura anche fra i docenti della Scuola di Perfezionamento in Radiocomunicazioni dove tiene il corso di radiotecnica agli studenti del primo anno di corso.
Nel 1936 è Professore Straordinario a Sassari e nel 1937 viene chiamato a dirigere l’Istituto di Fisica dell’Università di Perugia, ma continua a mantenere vivi i rapporti con Majorana. A Bologna conserva l’incarico per l’insegnamento di Fisica superiore e l’attività con la Scuola di Perfezionamento.
Sono anni di studi proficui, che gli permettono di progettare la prima porta automatica a cellule fotoelettriche in città, installata all’ingresso della società telefonica a Bologna (TIMO, poi divenuta SIP, quando papà ce ne parlava con orgoglio). Sui suoi studi si basa anche un sistema di sbarramento automatico del porto di Taranto che gli vale il titolo di cavaliere della Corona d’Italia, conferito nel 1934. Grazie alle sue competenze, viene chiamato a far parte del Comitato radiotelegrafico del CNR e i suoi studi sulla trasmissione di onde elettromagnetiche sono menzionati esplicitamente da Guglielmo Marconi, quando scrive la voce sulle Radiocomunicazioni per l’Enciclopedia Italiana.
(https://www.treccani.it/enciclopedia/radiocomunicazioni_%28Enciclopedia-Italiana%29/)
Sembrano maturare i tempi per un suo rientro all’Università di Bologna. In famiglia si attende la chiamata dell’Ateneo per l’autunno del 1938. Non arriverà mai. Al contrario, in quell’anno infausto viene dispensato dal servizio ed espulso dalle società scientifiche a cui apparteneva, fra cui la nostra SIF.
Naturalmente, non è il solo: sono almeno una cinquantina le persone espulse dall’Università di Bologna a seguito delle leggi razziali. Nell’elenco redatto dal sito Storia e Memoria di Bologna figurano cattedratici, docenti onorari ed emeriti, incaricati, assistenti, assistenti volontari e liberi docenti. Fra loro, mi colpisce la presenza di ben 6 donne: Augusta Algranati e Pierina Scaramella (assistenti), Nella Formiggini (assistente volontaria), Caterina Desylla, Alda Levi e Nerina Vita (libere docenti). Mi fermo a leggere i loro nomi e mi ritrovo a pensare che le leggi razziali hanno inferto un colpo ferale anche alla faticosa marcia verso la parità di genere.
(https://www.storiaememoriadibologna.it/professori-ebrei-espulsi-dalluniversita-di-bologna-1101-evento).
Il Senato Accademico dell’epoca si trova a gestire le ricadute delle leggi razziali, ma non le discute. Ci si occupa invece degli aspetti gestionali, avendo cura di procedere celermente con la sostituzione delle “persone di razza ebraica” (Figura 3).
Nei documenti d’archivio che sono riuscita a sfogliare si nominano i nuovi incaricati, ma le persone che vengono allontanate non sono mai menzionate per nome, ma solo collettivamente e in quanto “di razza ebrea”. Nella burocrazia statale gli individui sono già scomparsi.
La sostituzione delle competenze di tante persone non deve essere stato un compito semplice. Rimanendo nell’ambito della Fisica, già nel verbale della seduta del 15 novembre 1938, si legge che “...nel momento presente non vi sarebbe possibilità di trasferimenti che permettessero una sistemazione degli insegnamenti matematici degna delle gloriose tradizioni della Scuola Matematica di Bologna…”. Poco sotto si aggiunge: “...in base alla risistemazione ora prospettata [la Facoltà] si trova ad avere scoperti due posti di ruolo e si ritiene che si debba con uno di essi provvedere alle necessità già tante volte fatte presenti, della istituzione di una seconda Cattedra in Fisica”. Si sottolinea anche che “Un secondo insegnamento di Fisica permetterebbe poi di continuare a fare funzionare la Scuola di Radiocomunicazioni che ha assunto oggi tanta importanza e trova la sua sede naturale qui nella città di Augusto Righi e di Guglielmo Marconi” (Figura 4).
Senza dirlo, stanno parlando del ruolo che avrebbe dovuto ricoprire il nonno.
L’Ateneo non si spende a difesa dei suoi docenti e del suo stesso interesse. L’asciutta comunicazione di “dispensa dal servizio” viene ricevuta identica da una moltitudine di persone e modifica in un attimo le prospettive di famiglie intere.
Mio padre all’epoca aveva cinque anni ma ha sempre ricordato vividamente quel passaggio brutale. Per loro figli, la cattedra a Bologna avrebbe significato non solo un maggior benessere e una posizione sociale prestigiosa, ma anche avere il papà a casa tutte le sere. E invece, proprio alle soglie di quel traguardo, la famiglia precipita nell’incertezza.
Ci si affretta a battezzare in casa gli ultimi nati, Piero e Silvia, certamente per fede, ma anche a loro tutela. Anche il nonno si fa battezzare.
La nonna Giuliana, che aveva frequentato il corso di Matematica per quattro anni ma senza laurearsi, si iscrive all’Università per contribuire al sostentamento familiare andando ad insegnare. Si laurea nel 1939 al corso di Scienze Fisiche-Matematiche (anche per lei, l’archivio di Ateneo fornisce il titolo della tesi: Sul moto di un corpuscolo elettrizzato sottoposto all’azione di un campo elettrico simmetrico attorno ad un asse e di un campo magnetico uniforme, parallelo a tale asse).
Nel frangente drammatico, il nonno fa valere i titoli di benemerenza di cui dispone. Si ritiene un buon servitore dello Stato: ha partecipato alla Grande Guerra, ed è iscritto al partito fascista dal 1932, ha partecipato alla Scuola di Perfezionamento in Radiocomunicazioni. Questi titoli gli garantiscono l’odiosa ‘discriminazione’ al contrario: un trattamento di favore rispetto ad altri cittadini ebrei, che gli consente di ottenere un lavoro presso la Società Elettrica e Chimica Italiana (SECI), a Milano. La famiglia, seppur precariamente, sopravvive. Immagino la preoccupazione dei nonni per il sostentamento dei figli, ma i racconti relativi a quel periodo lasciano trasparire soprattutto quello che ha toccato loro, all’epoca bambini: il fonografo nuovissimo che, appena acquistato, dev'essere subito restituito, è rimasto negli occhi di mio papà; o ancora il saluto mancato delle compagne di scuola, che da un giorno all’altro cambiano strada per evitare l’incontro: la zia Luciana, quella del ritratto, lo raccontava conservando tracce di uno stupore attonito per quel comportamento.
La situazione peggiora drammaticamente nel 1943. Quando iniziano i rastrellamenti sistematici e la famiglia si nasconde prima in Appennino, a Popiglio, poi nel novembre si separano: i figli sono accolti da istituzioni religiose cattoliche: i maschi a Faenza dai salesiani, le femmine a Imola. Sono registrati come figli di N.N. (padre sconosciuto) con il cognome della madre. La zia Luciana raccontava di quella volta in cui alle bambine in fila veniva chiesto di dichiarare nome e cognome, e lei non ricordava più il cognome che doveva usare. È rimasta in fila, sicura di essere scoperta e portata via. Per qualche motivo l’appello si è interrotto prima che arrivasse il suo turno…
Il nonno continua a lavorare in fabbrica, a Milano, grazie alla complicità dei colleghi che elaborano un sistema per avvertirlo e permettergli di nascondersi in caso di controlli. La fabbrica sostiene lo sforzo bellico e forse i controlli non sono così minuziosi.
Con l’arrivo dell’estate del 1944, l’avanzamento del fronte rende pericoloso restare lungo la via Emilia, così i figli vengono spostati, prima in Appennino, poi i fratelli vanno a Torre Santa Maria, vicino Sondrio, nel collegio dei Padri Pavoniani, e le sorelle vanno in collegio a Milano. Da questo periodo arrivano ricordi di fame e di freddo. Piero, il più piccolo fra i maschi, viene separato dagli altri fratelli per essere ricoverato in ospedale, prima a Legnano, poi a Cannobio, sul lago Maggiore. Racconterà il ricordo del portone che si chiude, a segnare il doloroso distacco dai fratelli, ultimo residuo di famiglia. In questo quadro desolante di paura, solitudine e perdita di ogni riferimento conosciuto, mio padre e il fratello maggiore Carlo hanno la fortuna di un incontro positivo: padre Colombo, uno dei padri Pavoniani, che riesce a renderli partecipi della vita del collegio, e rimane fonte di ispirazione per molto tempo.
La famiglia si riunisce solo dopo la Liberazione, prima a Milano, in attesa di rimettere a posto la casa a Bologna. Alcune lettere rinvenute fra le carte di famiglia, accuratamente catalogate da Fabio Todesco, restituiscono il clima del periodo. (https://www.ingv.it/it/paginadellamemoria/testimonianze/5054-micol-todesco-introduce-il-nonno-giorgio).
Nel giugno del 1945, il nonno viene riammesso all’insegnamento. Diventa ordinario di fisica sperimentale presso la facoltà di medicina e chirurgia, prima a Perugia e poi, dal 1947, a Parma, dove diventa Direttore dell’Istituto di Fisica e poi Preside della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali.
Riprendono i contatti anche con l’Università di Bologna, ma saranno vani i suoi tentativi di succedere a Quirino Majorana sulla cattedra di Fisica sperimentale. L’ateneo che lo aveva dispensato dal servizio nel 1938, respinge la sua candidatura, negandogli la cattedra per la seconda volta.
Ma è proprio negli anni che trascorre all’Università di Parma che si crea un nesso inatteso fra il nonno, fisico autorevole e la nipote vulcanologa che lo racconta. In questo periodo, infatti, il nonno si avvicina agli studi di un illustre collega: Macedonio Melloni, conosciuto per gli studi sul calore radiante, ma anche fondatore e primo Direttore dell’Osservatorio Vesuviano. In collaborazione con il Presidente della SIF, Giovanni Polvani, il nonno cura una riedizione dell’opera scientifica di Melloni, che uscirà per Zanichelli nel 1954 (Polvani e Todesco, 1954; Todesco, 1955). Nello stesso anno, viene organizzato un convegno internazionale per celebrare il centenario dalla nascita. Il nonno figura come “relatore dell’orazione celebrativa ufficiale” (Figura 5).
Nella casa di famiglia, abbiamo ritrovato la medaglia celebrativa realizzata per l’occasione (Figura 6).
Nonostante alla famiglia ristretta siano stati risparmiati i lutti e la prigionia, i segni lasciati dalla persecuzione razziale sono rimasti vividamente impressi su tutti loro. Nei racconti di mio padre, il recupero della posizione sociale e la ripresa dell’attività didattica e di ricerca non sono mai riusciti a cancellare del tutto un senso di profonda amarezza. Il nonno morirà il 30 agosto 1958, precipitato da una finestra, presumibilmente a seguito di un attacco cardiaco.
Informazioni tratte, oltre che da racconti di famiglia da
Antonia Grasselli, Stranieri in patria. Gli ebrei bolognesi dalle leggi antiebraiche all'8 settembre del 1943, Bologna, Pendragon, 2006.
https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-todesco_%28Dizionario-Biografico%29/
https://www.storiaememoriadibologna.it
Riferimenti bibliografici
Polvani, G.; Todesco, G. 1954. Opere di Macedonio Melloni. Bologna : Nicola Zanichelli, 1954
Todesco, G. 1955. Opera e vita di Macedonio Melloni. Nuovo Cimento. Nicola Zanichelli Bologna, 1955, Vol. II, 3.
Figura 1. Giorgio Todesco e Giuliana Banzi in Todesco, dall’archivio di famiglia. Circa anni ‘40.
Figura 2 Frammenti tratti dal verbale del Senato Accademico degli anni dal 1934 al 1940, disponibile online nell’Archivio storico dell’Università di Bologna (pagine 56 e 59). Il verbale riporta il conferimento al Prof. Giorgio Todesco dell’incarico di insegnamento del corso di Fisica superiore per la Facoltà di Scienze. L’incarico viene mantenuto fino al 1938. (https://archiviostorico.unibo.it/it/patrimonio-documentario/verbali/verbali-senato-accademico/index.html)
Figura 3. Stralcio dal verbale del Senato Accademico degli anni dal 1934 al 1940 (pp. 291-292), disponibile online nell’archivio storico dell’Università di Bologna. Nella seduta del 17 ottobre 1938 si fa riferimento agli “incarichi di insegnamento a persone di razza ebraica” già trasmessi al Ministero e “per i quali ora occorre provvedere alla sostituzione”.
Figura 4. Stralcio dal verbale del Senato Accademico degli anni dal 1934 al 1940 (pp. 317-318), disponibile online nell’Archivio storico dell’Università di Bologna. Nella seduta del 15 novembre 1938 si menziona la necessità di una seconda cattedra in Fisica.
Figura 5. Il programma del convegno internazionale di Fisica sulla figura di Macedonio Melloni, tenutosi a Parma nel 1953. (Immagine tratta dalla tesi di dottorato della Dott. Emanuela Colombi, Macedonio Melloni: una biografia scientifica. Università degli Studi di Parma, XXVII Ciclo).
Figura 6. La medaglia celebrativa realizzata in occasione del convegno su M. Melloni, nel 1954.