Nel bel l’articolo che segue, scritto dalla Prof.ssa Cristina Bettin, il mio nome compare varie volte. Come mai? Per la semplice ragione che sono la secondogenita di Lucia Bedarida Servadio, la protagonista di questo scritto? Ma, non solo. La ragione più importante del mio contributo è che, nel seno della mia famiglia, sono l’unico membro della mia generazione ancora in vita. Ho seguito mia madre fino alla fine e, già adulta, ho potuto conoscerla nel suo intimo e ricevere da lei informazioni sulla sua vita, sulle storie della famiglia, documenti, e foto.
Avevo 11 anni quando le leggi razziali furono promulgate in Italia. Ero in vacanza con mio padre a Cogne (in Val d’Aosta) e durante una bella passeggiata nei boschi incontrammo, proprio per caso, degli amici dei genitori, ebrei torinesi. I “grandi” si misero a parlare della situazione politica, a cui non prestai grande attenzione, fino a che udii “i ragazzi non potranno più tornare a scuola”. Ricordo di aver sentito già allora un senso di esclusione dal mio mondo.
Quando lasciai l’Italia avevo 13 anni e quindi passai due anni traumatizzanti, a causa di non potere frequentare le scuole, della perdita dei compagni di scuola, e dell’assenza dei genitori , che andavano a Roma per visitare i vari consolati, alla ricerca di paesi dove emigrare, e poi a Tangeri per impiantare una sistemazione stabile per la famiglia.
Mi sentii molto ferita e esclusa allorchè la mia migliore amica, compagna di scuola e confidente, mi disse: ”La mamma non vuole che tu venga più a casa nostra.” Fu un vero dolore non poterla rivedere mai più! Ma, allo stesso tempo, degli amici dei miei genitori, i cui figli erano amici nostri, continuarono ad invitarci a casa loro dove andavo a giocare con una delle figliole. Durante l’estate passata a Pescara mia sorella maggiore fece amicizia con tutta una banda di giovani che l’invitavano a casa di uno o dell’altro per passare il pomeriggio a divertirsi, a ballare, a flirtare. Siccome i genitori non la lasciavano uscire sola, io dovevo farle da chaperon e fu infatti a Pescara, durante l’estate del 1940, dove imparai a ballare, attività che mi piacque alla follia. E passai un’estate divertente e spensierata.
L’idea di andare a vivere in un altro paese, di ritrovare i genitori, e di ritrovarci di nuovo tutti insieme era eccitante, ma accompagnata dal dolore dell’abbandono forzato della patria, della casa, dei parenti, degli amici, e del trapianto in un altro paese, dell’adattamento a un’altra cultura, ad altre lingue, a un’altra vita.
A Tangeri i genitori mi misero alla scuola italiana, con l’idea che il trauma sarebbe stato minimo, dato che l’insegnamento era identico a quello in Italia, la lingua la stessa, e avrei potuto ottenere la licenza liceale che mi avrebbe permesso di continuare gli studi universitari in Italia. Ma l’esperienza non fu cosi felice. Si, era una scuola italiana, ma era pure una scuola fascista. I compagni di classe, pur sempre gentili e corretti, erano convinti fascisti; lodavano la “magnificenza” del Duce, le grandi vittorie del fascismo sui campi di battaglia, quando io sapevo delle grandi sconfitte! Durante una delle adunate e feste sportive, a cui erano stati invitati alcuni diplomatici tedeschi, dovevamo cantare gl’inni fascisti e alcuni avevano frasi antisemite che incitavano a “cacciare gli ebrei”. Una mia compagna, ebrea marocchina ed io, rifiutammo di cantare e fummo convocate dal preside (e nostro professore di latino), persona per cui avevo molta stima e simpatia, il quale fece di tutto per mostrarsi comprensivo e nostro sostenitore e fini’ per convincerci di non cantare, ma di far finta.
Quando le leggi razziali scombussolarono la mia vita ero abbastanza grande per capire e per incidere nella mia memoria fatti, date, persone, posti , che ricordo ancor ora nei minimi dettagli. Ho potuto cosi schizzare un ritratto di mia madre per Cristina e contribuire in parte alla redazione di questo articolo. Sono quindi contenta e soddisfatta di poter collaborare, anche se minimamente, al progetto “Pagina della memoria” e a mantenere vivo il ricordo di mia madre, una donna un po’ “speciale e diversa”.
Mirella Bedarida Shapiro
Gennaio 2023
L’articolo è disponibile, in modalità open access, al link:
https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/0014585818813313
da citarsi: Bettin, C.* (2019). Voci della memoria: Un’ebrea italiana nel Novecento italiano. Forum Italicum, 53(1), 112–138. https://doi.org/10.1177/0014585818813313
*Cristina Bettin, Phd, Ben Gurion University of the Negev, Presidente di AISSI, l’Associazione degli Accademici e Scienziati italiani in Israele
Foto 1 Mirella Shapiro (in abiti femminili) e la sorella in costume abruzzese. Rappresentazione scolastica (danze folcloristiche e canti in dialetto) a Vasto , 1935
Foto 3: Lucia Servadio Bedarida con le tre figlie, Paola, Mirella (con le trecce) e Adria, sulla spiaggia di Pescara poco prima di partire per Tangeri, ottobre 1940