A cura di Lorenzo Grassi
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Una gigantesca “ombra nera” che pesa sulla storia del CAI e con la quale non si sono ancora voluti fare i conti sino in fondo: è l’epurazione dei soci ebrei attuata nel 1939 con la pedissequa applicazione delle “leggi razziali”. Scorrendo i verbali dell’allora Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano, spicca la “banalità del male”: una riga sopra c’è il “dimissionamento” – con “massima discrezione” – degli alpinisti “di razza non ariana” con i quali si andava in cordata in montagna sino al giorno prima; una riga sotto, invece, il Consiglio direttivo è tutto preso dai preparativi del “grande ballo in stile” per il Carnevale.
A capo della Sezione in quegli anni c’era il Presidente Guido Brizio, che all’arrivo degli Alleati a Roma trovò modo di continuare a ricoprire ruoli nel Sodalizio “con molto tatto” e “secondo i nuovi principi democratici”. Il CAI, rimasto colpevolmente omertoso e silente, arrivò ad esprimere a Brizio “riconoscenza” e ad intitolargli negli anni Cinquanta una via ferrata sul Gran Sasso. Un’onorificenza che reclama una doverosa rettifica della memoria storica.
Il contesto
Le “leggi razziali” fasciste
Il 14 luglio 1938 il Giornale d’Italia pubblicava in forma anonima un documento dal titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”, più noto con il nome di “Manifesto della razza”, anticipatore e base teorica della successiva legislazione razziale che ratificherà l’antisemitismo di Stato privando gli ebrei italiani dei diritti politici e civili conquistati in epoca risorgimentale. Nel documento si sosteneva in particolare il seguente assioma: che “le razze umane esistono”, che “esiste una pura razza italiana” e che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”. Il 5 agosto 1938 il documento improntato al razzismo biologico veniva ripubblicato sul primo numero della rivista “La difesa della razza”, firmato da 10 scienziati e docenti universitari fascisti.
Il 22 agosto 1938 veniva promosso dal regime il primo Censimento speciale nazionale – ad impostazione razzista – della “minoranza ebraica”, che riportava “58.412 persone con almeno un genitore ebreo e di esse 46.656 ebree”. Nel Consiglio dei ministri dell’1 e 2 settembre 1938 veniva approvato un primo pacchetto di decreti che contenevano, tra l’altro, provvedimenti per l’immediata espulsione degli ebrei dalla scuola (Regio Decreto Legge del 5 settembre 1938 con “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”). Centinaia di presidi e professori ebrei furono allontanati da scuole e università, espulsi da accademie e società scientifiche; migliaia di studenti vennero cacciati dalle aule e fu proibito l’uso di libri di testo di autori di razza ebraica. Seguirono i provvedimenti di espulsione dagli impieghi pubblici e dalle libere professioni, oltre alla limitazione del diritto di proprietà. Il 18 settembre 1938 le “leggi razziali” venivano rivendicate ufficialmente da Benito Mussolini in un discorso a Trieste. In seguito, il 6 ottobre 1938, veniva emessa dal Gran Consiglio del Fascismo una “Dichiarazione sulla razza”, poi adottata dallo Stato con Regio Decreto Legge del 17 novembre 1938.
L’irrigimentazione del CAI
Per inquadrare l’applicazione delle “leggi razziali” nel CAI bisogna fare un passo indietro. Nel 1927, nonostante le rivendicazioni di indipendenza, il CAI venne forzatamente “incluso” nel CONI (che già nello Statuto del 1921 prevedeva un “vincolo di piena sudditanza ai voleri del potere politico”). Il Presidente Eliseo Porro lo annunciò così sul primo numero della Rivista Mensile del 1927: “Il nostro Sodalizio è oggi ufficialmente fascisticamente inquadrato nelle falangi degli atleti italiani (…) diventando legione di Benito Mussolini”. Da allora i vertici del CAI, come già avveniva per il Comitato Olimpionico Nazionale Italiano, non furono più eletti democraticamente, ma nominati con Decreto del Capo del Governo su proposta del Segretario del Partito Nazionale Fascista. A loro volta i vertici nominavano i Presidenti delle Sezioni (come i Presidenti delle Federazioni sportive), che dovevano essere iscritti al partito.
Nel 1928 assumeva la presidenza del CONI il Segretario del Partito Nazionale Fascista, Augusto Turati, ras del fascismo bresciano. Lo stesso Turati, nella primavera del 1929, assumeva anche la presidenza del CAI. Con uno stringato comunicato, pubblicato sulla Rivista Mensile del 29 aprile 1929, fu annunciata la decisione di Turati di spostare la sede centrale del CAI da Torino a Roma (dove poi resterà sino al 1943), per poter godere più da vicino del “soffio vivificatore del fascismo”, come affermava lo stesso Turati. Anche questa decisione – come in precedenza quella dell’assorbimento nel CONI – provocò qualche reazione interna, alla quale seguirono le espulsioni per “indisciplina” di alcuni soci dissenzienti.
Nella primavera del 1930 la presidenza del CAI passava all’avvocato Angelo Manaresi, podestà di Bologna, che già ricopriva le cariche di Sottosegretario al Ministero della Guerra e di Presidente dell’Associazione Nazionale Alpini. Era evidente l’intento di rafforzare – con l’implicita analogia tra alpini e alpinisti – la crescente “irrigimentazione” del Sodalizio. In breve anche la redazione della Rivista Mensile del CAI fu trasferita da Torino a Roma.
Nell’editoriale di insediamento, pubblicato sul primo numero del 1931, Manaresi mise subito in chiaro la linea di assoluta ubbidienza al regime:
“Nessun angolo morto, quindi, nel CAI, di afascismo irriducibile; come nessun trampolino per ascensioni politiche”. E ciò con “il fermo intendimento di dare una linea di sempre maggiore austerità e ravvivarne lo spirito con la partecipazione fervida e appassionata di quanti intendono l’alpinismo non solo come esercizio fisico, ma come potente mezzo per l’elevazione culturale e spirituale della razza”.
Nel frattempo, fra il 1931 e il 1932, fu messa in atto una “selezione rigorosa” del personale di custodia dei rifugi CAI, da sottoporre al vaglio politico del Partito Nazionale Fascista per “eliminare” gli “elementi pericolosi alla causa dell’italianità”. Con un’altra decisione strategica, il presidente Manaresi nel 1932 si accordò con la Segreteria generale dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) per inquadrare nel CAI i 40.000 universitari fascisti, in modo da ottenere un abbassamento dell’età dei soci promuovendo la “più eletta giovinezza del Regime”.
Nel 1936, complice il clima bellico delle azioni coloniali in Africa Orientale, nel giorno della domenica delle Palme presso la Scuola Militare di Alpinismo ad Aosta il Consiglio direttivo centrale del CAI eleggeva per acclamazione, accanto al Presidente generale, un Presidente militare nella persona del Generale ispettore delle Truppe Alpine. In tal senso veniva modificato anche lo Statuto.
Nel 1938 veniva confermato alla presidenza Manaresi, con Presidente militare il Generale Luigi Negri. Il Consiglio direttivo (consultivo) era formato dagli effettivi: Federico Acquarone, Guido Bertarelli, Carlo Caffarelli, Carlo Carretto, Carlo Chersi, Gianni Chiggiato, Ardito Desio, Ciannantonio Nanni, Fenuccio Negri di Montenegro, Ugo Ottolenghi di Vallepiana, Franco Poggi, Franco Pugliese, Guido Alberto Rivetti, Euclide Silvestri e Raffaello Vadalà Terranova. Consiglieri aggiunti: Carlo Bonardi, Giorgio Fino, Giuseppe Gelormini, Mario Mengoni, Fernando Mezzasoma, Sandro Stagno e Luigi Tedeschi. Consigliere di diritto il Segretario CONI. Revisori dei Conti: Guido Brizio (Presidente della Sezione dell’Urbe), Sandro Datti e Renato Galletelli.
Il Consiglio direttivo “prese atto” della disposizione (Regio Decreto convertito in Legge il 17 maggio 1938) con la quale il Segretario del Partito Nazionale Fascista aveva stabilito il cambio di denominazione del CAI da Club Alpino Italiano a Centro Alpinistico Italiano. Una scelta motivata dalla necessità di evitare un termine (Club) giudicato esterofilo, sostituendolo con uno che era in “analogia con il nome di altri istituti di carattere militare” e dunque “ben s’attagliava all’ente alpinistico che aveva l’onore di collaborare con i comandi militari per lo studio e la difesa delle nostre montagne”. Insieme al termine Centro erano stati ipotizzati anche quelli – sempre con iniziale C per non variare la sigla CAI – di Camerata, Compagnia e Consociazione. Anche in questo caso la variazione suscitò nella base del Sodalizio qualche malumore, rapidamente sopito. A novembre del 1938 anche la testata della Rivista Mensile del CAI fu aggiornata nella denominazione: “Le Alpi”. Da notare che nel Consiglio direttivo, sino a questo momento, avevano seduto senza problemi anche soci ebrei come Ugo Ottolenghi di Vallepiana.
L’applicazione delle “leggi razziali” nel CAI
Come detto, a partire dall’autunno del 1938 il regime fascista aveva iniziato a varare le “leggi razziali”, i cui primi effetti si fecero sentire nel CAI il 5 dicembre 1938, quando la Presidenza generale inviò alle Sezioni una “Circolare riservatissima” – della quale una copia è conservata nell’Archivio della Sezione CAI di Milano – con cui si fissavano i criteri per l’epurazione dei “soci di razza non ariana”.
CAI – Centro Alpinistico Italiano
Presidenza Generale
Roma, 5 dicembre 1938-XVII
RISERVATISSIMA 13413
In merito ai soci di razza ebraica, d’ordine superiore, regolarsi come segue:
DIRIGENTI
Tutti i dirigenti centrali e periferici del CAI (anche componenti di commissioni) devono essere esclusivamente di razza ariana pura.
Il “pura” significa che nel settore del Partito e, quindi, in quello dello sport, agli effetti delle cariche direttive è considerato alla stregua degli ebrei anche chi abbia un solo genitore ebraico.
Anche i discriminati non possono essere dirigenti.
(Nota: i “discriminati” erano gli ebrei – e loro familiari – esentati dalle disposizioni restrittive ai sensi del Regio Decreto Legge n. 1728 del 17 novembre 1938 perchè in possesso di “eccezionali benemerenze” militari o civili).
SOCI
Eventuali discriminati, nonchè figli di matrimoni misti, purchè cattolici al I° ottobre XVI, possono far parte di società sportive solamente come soci.
Tutti coloro che devono essere esclusi dal CAI a norma delle disposizioni di cui sopra, saranno considerati dimissionari anche se iscritti alla categoria dei soci vitalizi ed anche se hanno pagato la quota dell’anno in corso, quota che, se richiesta, potrà essere restituita.
Le sezioni ne daranno scarico alla Presidenza Generale.
Le presenti disposizioni hanno carattere strettamente riservato e non dovranno, in nessun caso, essere comunicate alla stampa o, per iscritto, agli interessati.
La Presidenza
A seguito della Circolare, scattò una sistematica e massiccia esclusione dei soci ebrei dal CAI, che colpì anche personalità illustri. Considerata la “riservatezza” dell’operazione, però, è abbastanza difficile trovare documentazioni dirette ed evidenti dell’epurazione. Un modo empirico per tentare di ottenere una stima quantitativa dei soci colpiti è quello di confrontare le liste degli iscritti nelle Sezioni del 1938 e del 1939. L’effetto è evidente in quelle dove la presenza di soci ebrei era più consistente sin dalla fondazione, come a Ferrara e Varallo Sesia.
Quanto agli espulsi “eccellenti”, alcuni dei casi che vengono maggiormente ricordati sono quelli del professore Emilio Artom (Torino, 9 novembre 1888 – Torino, 11 dicembre 1952), già socio benemerito CAI; del compositore e alpinista Leone Sinigaglia (Torino, 14 agosto 1868 – Torino, 16 maggio 1944) e di Ugo Ottolenghi Conte di Vallepiana (Firenze, 26 dicembre 1890 – Milano, 13 gennaio 1978), sciatore ed esperto alpinista che aveva arrampicato con Paul Preuss. Già ufficiale degli Alpini che aveva combattuto valorosamente sulle Tofane durante il primo conflitto mondiale e poi impegnato nell’organizzazione delle attività alpinistiche con un ruolo dirigente (era membro effettivo del Consiglio direttivo centrale del CAI).
Ottolenghi, allontanato da uno “zelante e servile” funzionario della Sezione di Milano, fu costretto a lasciare tutte le cariche. Resta agli atti un goffo e ambiguo tentativo del Presidente nazionale Manaresi che, incontrando l’alpinista, mostrò rammarico personale ricordando la possibilità di fruire della “discriminazione” e chiosando: “Vallepiana non è un nome ebreo e possiamo continuare a far finta di non sapere che tu lo sia”. Provocando la reazione sdegnata dell’interessato.
Le reazioni dei soci di fronte all’esclusione dei “non ariani” – come è stato ricostruito in diversi saggi storici riportati in bibliografia – “oscillavano fra l’accettazione indifferente delle direttive del regime e l’imbarazzo per la cacciata di compagni di escursioni e di cordate, che tuttavia non si traduceva in posizioni di aperta solidarietà verso gli esclusi”. Si segnalarono poi alcuni contesti, come quello della Società Alpina delle Giulie di Trieste, dove i criteri razziali furono persino anticipati rispetto alle disposizioni nazionali, attuando un’epurazione “rapida e radicale” (con l’asportazione tout court delle schede dei soci ebrei).
Nonostante l’invito alla discrezione, qualche traccia è sfuggita ed è rimasta persino sulla stampa associativa del CAI. Il 16 gennaio 1939, ad esempio, sulla rivista “Lo Scarpone” fu pubblicato un trafiletto sull’attività del Gruppo Alpinistico “Fior di Roccia”, Sottosezione del CAI di Milano. Nel capitolo “Tesseramento” si legge:
“Inoltre dobbiamo avvertire che, per disposizioni precise emanate dalle competenti Federazioni, non verranno rinnovate le tessere (Fior di Roccia, Ond, CAI e FISI) agli ebrei ed a coloro che hanno cittadinanza straniera”.
Zelante anche la Sezione di Ferrara, che già il 18 dicembre 1938 aveva diramato la seguente Circolare interna:
“In relazione ad analoga disposizione emanata dal CONI e d’ordine della Federazione Fascista – Ufficio Sportivo – questo Centro Alpinistico ha aggiunto al proprio Statuto l’Articolo seguente: Condizione indispensabile per poter essere Soci della Sezione è l’appartenenza alla razza ariana. Possono far parte della Sezione, come Soci, gli eventuali discriminati, nonché i figli di matrimoni misti, purchè cattolici al I° Ottobre XVI”.
Nel 1939, alla presenza delle massime autorità sportive italiane e tedesche, fu siglato un accordo tra i Presidenti del CAI e del DAV (Deutscher Alpenverein) che – “nello spirito di cameratismo tra i due popoli rafforzato da avvenimenti storici di importanza mondiale” – disciplinava unitariamente l’attività in montagna nei due Paesi, rafforzando la collaborazione fra gli alpinisti.
L’8 maggio 1939 scattò la modifica dell’articolo 12 dello Statuto del CAI, che veniva riscritto nell’incipit nel modo seguente: “I soci del CAI, che debbono esclusivamente appartenere alla razza ariana, si distinguono in: onorari ed effettivi (…)”. L’integrazione al testo fu resa nota ai soci con il Foglio disposizioni n. 121 emanato il 26 maggio 1939 e pubblicato sul numero 8-9 di giugno-luglio 1939 della Rivista mensile del CAI “Le Alpi”. Fa impressione vedere quel lapidario e terribile inciso affiancato da una pubblicità della fiorita di lavanda della ditta Soffientini di Milano che “accentua il fascino della bellezza femminile con il suo soave profumo”.
Sempre nel 1939, una disposizione della Presidenza generale del CAI impose alle Sezioni proprietarie di rifugi intitolati ad alpinisti ebrei di provvedere “senza indugio” al cambio di denominazione, applicando in tal modo le “leggi razziali” non solo ai vivi ma anche ai morti. La Sezione CAI di Verona, che nel dicembre del 1937 aveva intitolato ad Achille Forti (socio mecenate e studioso) un rifugio sui Lessini alle pendici del Monte Tomba, si affrettò a rinominarlo Rifugio “Giovinezza”. Altri esempi da citare sono quelli del Rifugio Mariannina Levi (ribattezzato Magda Molinari), del Rifugio Cesare Luigi Luzzati (variato in Sorapiss) e del Rifugio Adolfo Sonnino (trasformato in Coldai). Alcuni rifugi furono intitolati ad amici del regime che non erano nemmeno alpinisti.
Un scontro particolarmente duro contrappose nel 1941 il Commissario della Sezione CAI di Vicenza, Tommaso Valmarana, al Presidente Manaresi. Quest’ultimo voleva imporre infatti il cambio di denominazione del Rifugio Vicenza “per accogliere il desiderio dell’onorevole Arturo Marescalchi di intitolarlo a nome del suo figlio Umberto caduto in guerra”. Al no di Valmarana, Manaresi provò ad insistere confidando “nella comprensione degli alpinisti vicentini sempre disciplinati”. Ma alla fine la spuntò la Sezione, che convinse il senatore Marescalchi a recedere.
Il 22 febbraio 1941 il CONI approvò il nuovo Statuto del CAI che, all’articolo 2, specificava tra i suoi scopi principali quello di “avviare i giovani alla montagna, per farne fisicamente, intellettualmente e moralmente dei forti soldati della Patria”. In seguito, nel 1942, il CAI uscì dal CONI ed entrò a far parte di un gruppo di associazioni che dipendevano nominalmente dal Partito Nazionale Fascista, ma che godevano di un’autonomia relativamente semi-completa o completa.
La Sezione dell’Urbe del CAI
Alla guida della Sezione CAI di Roma, che aveva sede in via Gregoriana 34 e il cui nome era stato variato in Sezione dell’Urbe, si erano succeduti tra gli anni Venti e gli anni Trenta: l’architetto Gustavo Giovannoni (1921-1926), l’on. Giuseppe Bottai (1927-1928), il ministro delle Corporazioni Tommaso Bisi (1929-1932), il duca Carlo Caffarelli (prima nel 1932 come Commissario, poi Presidente nel periodo 1936-1937) e infine Giovanni Vaselli (1938).
Quest’ultimo, onorevole e avvocato, si era dimesso il 29 ottobre 1938 “non potendo continuare a ricoprire la carica per impegni professionali”. A prenderne il posto fu il ragioniere Guido Brizio, “chiamato a reggere la Sezione come Commissario” direttamente dal Presidente generale del CAI Manaresi. Brizio restò in carica come Commissario sino al 25 agosto 1939, per poi diventare Presidente e mantenere la guida della Sezione sino alle dimissioni presentate il 23 giugno 1944 (dal 28 luglio 1944 fu sostituito dal Commissario avvocato Carlo Manes).
Nell’avvio del “periodo commissariale” di Guido Brizio – con data 29 ottobre 1938 – vennero indicati come suoi “collaboratori”: Giordano Bruno Fabjan (Segretario), Pino Coleschi, Filippo Arredi, Augusto Gentili e Mario De Marchis (come risulta dal Libro dei verbali del Consiglio della Sezione dell’Urbe CAI dal 15 febbraio 1927 al 14 dicembre 1939). La prima riunione, come risulta dal libro dei verbali, si tenne il 2 novembre 1938, alle ore 22, ed erano tutti presenti. Tra i temi trattati: “La collaborazione con i camerati del GUF (Gruppo Universitario Fascista) e con il Comando Federale dell’Urbe della GIL (Gioventù del Littorio)”.
L’applicazione delle “leggi razziali” nella Sezione dell’Urbe
Il 5 dicembre 1938, come detto in precedenza, la Presidenza generale del CAI inviò alle Sezioni la “Circolare riservatissima” con la quale si fissavano i criteri per l’epurazione dei “soci di razza non ariana”. Si mise così in moto il meccanismo delle “leggi razziali” anche all’interno della Sezione dell’Urbe.
Il “formulario”
Nell’Archivio storico della Sezione è conservata la nota n. 126 del 28 dicembre 1938, scritta dal Commissario straordinario Guido Brizio all’indirizzo del “Camerata Edoardo Canali”:
“Per superiori disposizioni, e colle direttive cui l’acclusa circolare della Presidenza generale (che ti prego tenere riservatissima) dobbiamo cancellare dall’albo sociale (considerandoli dimissionari) i Soci di razza non ariana, e darne scarico alla Presidenza generale.
Affido a te, assieme ai camerati Gentili e Giannini, l’incarico di redigere l’elenco dei nomi che devono essere cancellati. Colla scorta del fascettario, che metto a vostra disposizione, vi servirete dei noti formulari ritornati, riempiti dai Soci. Ove questi manchino, per non essere giunti di ritorno, occorrerà procedere per intuizione, e nei casi dubbi assumere informazioni.
Ti prego di prendere accordi coi camerati sopra indicati, per la distribuzione del lavoro, e mentre ti ringrazio antecipatamente cordialmente ti saluto”.
La nota fa intendere che la Sezione aveva predisposto degli appositi “formulari”. Si trattava di strisce di carta orizzontali con la dizione “Riservata” stampigliata in alto a destra, l’intestazione CAI – Sezione dell’Urbe e le seguenti voci da compilare: Nome e cognome del Socio; Paternità… di razza…; Maternità… di razza…; Nazionalità; Religione al I° ottobre XVI; Se discriminato ai sensi delle vigenti norme in materia di razza; Firma finale.
Nel verbale della terza riunione del periodo commissariale, che si tenne il 12 gennaio 1939, si rinviene la traccia più importante dell’applicazione delle “leggi razziali” nella Sezione romana. La riunione fu convocata alle ore 22 ed erano presenti: il Commissario, G.B. Fabjan, Pino Coleschi, Mario De Marchis e Augusto Gentili. Assente giustificato: Filippo Arredi.
Nell’argomento dal titolo “Epurazione dei Soci”, si legge:
“In seguito a circolare riservatissima della Presidenza generale, la Sezione deve scaricare dal suo schedario tutti i Soci di razza non ariana. A tal scopo la nostra segreteria invierà ai singoli Soci un formulario da riempire dal quale risulti l’appartenenza della razza.
A lavoro finito il Commissario propone di fare degli elenchi dove risultino, gli Ariani, gli ebrei, i discriminati ed eventualmente una lista dei dubbi.
Il collaboratore Coleschi insiste perché tale lavoro venga fatto con la massima cautela onde non incorrere in errori poco simpatici.
Viene inoltre stabilito di aggiungere alle domande di ammissione, l’appartenenza della razza”.
Quest’ultima è una scelta che precorre la modifica dello Statuto CAI (che si concretizzerà a livello nazionale solo nel mese di maggio del 1939).
Fa impressione notare la “cinica leggerezza” con la quale, nello stesso verbale in cui si ufficializzava l’epurazione dei soci ebrei, poche righe dopo si riferiva della “idea di organizzare un grande ballo in stile”. Un ballo “con biglietti al prezzo minimo di lire 25”, con organizzazione affidata “ad un comitato di Dame, possibilmente Donna Caffarelli-Donna Lantini, detto ballo dovrebbe effettuarsi entro le prime settimane del Carnevale. Dovrebbe essere effettuato in un grande Albergo, e tale manifestazione dovrebbe servire a far conoscere sempre più il nostro Sodalizio”.
Si pensava tranquillamente alle danze mentre la politica razziale del regime iniziava a mostrare il suo volto più feroce. Nei verbali delle successive riunioni non vi è più traccia del tema “epurazione”, mentre ricorre con insistenza l’impegno della Sezione per realizzare a Campo Staffi un rifugio da intitolare al Maresciallo Graziani.
Su “Lo Scarpone” del 1° settembre 1939 fu resa nota la nomina del ragioniere Guido Brizio a Presidente della Sezione. Questo il testo del breve articolo:
“Il 25 agosto 1939 è giunto da S.E. Angelo Manaresi, Presidente generale del CAI il seguente telegramma al rag. Guido Brizio, Commissario straordinario della Sezione: Visto esito tuo periodo commissariale nominoti con benestare CONI Presidente Sezione Urbe CAI, pregandoti propormi urgenza Consiglio direttivo. Buon lavoro.
La nomina all’alta carica del rag. Brizio premia la lunga attività alpinistica dell’attivo camerata che, entrato nella Sezione dell’Urbe da vent’anni, subito dopo la guerra, con la tradizione di chi era stato ed è ancora dell’Alpina delle Giulie di Trieste – quando l’appartenere a quel Consiglio rappresentava la più pura tradizione irredentistica, col rischio di andare a vedere il sole a scacchi – ha dato all’alpinismo dell’Italia centrale una fede attiva e quindi il plauso di tutti i consoci della Sezione è pieno, solidale, monolitico, entusiastico”.
Con foglio 32717 del 13 settembre 1939, il Presidente generale del CAI ufficializzò la nomina a Presidente di Guido Brizio e ratificò le nomine delle seguenti cariche: Roberto Bettoja (Vice Presidente); Giordano Bruno Fabjan (Segretario); Augusto Gentili (Vice Segretario). Consiglieri: Filippo Arredi, Fernando Botti, Carlo Caffarelli, Pino Coleschi, Fulvio Gerardi e Guido Mezzatesta. Revisori dei Conti: Ferruccio Giannini, Cesare Sindici ed Edoardo Canali. Sottosezioni: Ministero della Guerra, Istituto Nazionale Assicurazioni, Istituto Nazionale Cambi Estero, Gerardo Parodi Delfino, Meta e Subiaco.
Entrarono nel Consiglio direttivo “anche il camerata Vittorio Masini, comandante della GIL Alpina. Per disposizioni della Presidenza generale devono farne parte due universitari del GUF: oltre al dottor Luigi Santurini (in sostituzione dell’ing. Pino Coleschi, che per ragioni professionali ha dovuto cambiare residenza) sono Marcello Garroni e l’ing. Carlo Lotti”.
Fa impressione rileggere le conclusioni della relazione di insediamento letta da Guido Brizio il 4 ottobre 1939, mentre era stata appena attuata l’epurazione:
“Vi ho esposto quali sono a parer mio, e salvo la Vostra approvazione, le direttive della Sezione. La strada è segnata; occorre percorrerla senza esitazione; senza fermarsi, e soprattutto che nessuno rimanga indietro. Solo con fede e fermezza di propositi riusciremo”.
L’impatto sulla Sezione dell’Urbe
Per provare a ricostruire l’impatto delle “leggi razziali” sulla compagine sociale della Sezione di Roma si può fare riferimento al confronto degli iscritti tra il prima e il dopo, secondo le risultanze della “Relazione sull’attività morale e finanziaria” del 1939 che il Consiglio direttivo approvò il 14 dicembre 1939 e il Segretario Fabjan presentò all’Assemblea generale dei Soci della Sezione il 19 dicembre. La relazione, stampata in forma di piccolo opuscolo, fu allegata al Libro dei verbali del Consiglio della Sezione dell’Urbe CAI dal 15 dicembre 1939 al 12 dicembre 1949.
Questo il testo della parte di Relazione dedicata al “Movimento Soci” (dal 29 ottobre 1938, data della nomina di Brizio a Commissario, sino al 29 ottobre 1939):
“La cospicua cifra degli scarichi nella categoria ordinario, è da attribuirsi in gran parte ai dimissionati per motivi razziali. Avrete notato anche come le categorie GUF e GIL presentano un incremento superiore al 100% e vogliamo subito prevenire qualche possibile obiezione precisando che i nuovi ammessi fanno parte di tali categorie esclusivamente perché ne hanno diritto.
Riassumendo, la forza numerica della Sezione al 28 ottobre 1939 che risulta in carico, a quote regolarmente pagate, è la seguente:
Perpetui: 4 – Dimessi: nn – Ammessi: nn
Vitalizi: 46 (7 accademici) – Dimessi: 1 – Ammessi: 4
Ordinari: 551 – Dimessi: 127 – Ammessi: 128
Aggregati: 134 – Dimessi: 46 – Ammessi: 35
GUF Ordinari: 381 – Dimessi: 63 – Ammessi: 189
GUF Aggregati: 25 – Dimessi: 25 – Ammessi: 6
GIL Ordinari: 197 – Dimessi: 50 – Ammessi: 125
GIL Aggregati: 18 – Dimessi: nn – Ammessi: 16
Militari: 14 – Dimessi: nn – Ammessi: 7
Totale: 1.370 (nel 1938 erano 1.182)
A titolo informativo possiamo dirvi che dal 28 ottobre di quest’anno ad oggi sono stati ammessi oltre 180 nuovi soci. Non dovete pensare che i soci vengano accettati come può accettare clienti un negozio il cui padrone si mostri sollecito solo del numero. Tutt’altro, ogni domanda viene debitamente vagliata e se non presenta i requisiti necessari, respinta. Che la Sezione sia in un particolare momento di grazia, per quanto riguarda la gioventù, l’avrete notato anche in sede, dove le serate di riunione circola una forte corrente di giovinezza, e più ancora nelle nostre gite”.
Si può quindi desumere, in modo molto empirico, che la Sezione CAI di Roma nel 1939 procedette all’epurazione di circa 150 soci ebrei, ovvero la “gran parte” – come si legge nel testo della Relazione – dei 127 ordinari “dimessi”, ai quali vanno aggiunti anche una parte dei 46 aggregati non rinnovati.
Dal verbale dell’Assemblea si evince che “finita la lettura della Relazione, durata 45 minuti, l’uditorio prorompe in fragorosi applausi all’indirizzo del Presidente e del Consiglio direttivo che si alza in piedi salutando romanamente. (…) il Presidente dichiara chiusa l’assemblea alle 23 e i convenuti sfollano cantando le “nostalgiche” canzoni alpine. All’inizio e alla fine è stato dato il saluto al Re e al Duce”.
Al Presidente Brizio giunsero poi i complimenti del Presidente generale del CAI, Manaresi, che scriveva:
“Ho letto con vivo interesse l’accurata Relazione, stesa dal camerata Fabjan, sulla attività svolta dalla Sezione dell’Urbe nell’anno XVII e sul programma futuro, ed ho visto con soddisfazione che l’alpinismo romano, riorganizzato e ben inquadrato, è animato da molte buone iniziative e sta ottenendo cospicui risultati. A te e ai tuoi collaboratori, il mio plauso cordiale e riconoscente”.
Alcuni nomi dei soci “epurati”
Da un primo esame della documentazione presente nell’Archivio della Sezione CAI di Roma (Cartellina n.74/132 denominata “Soci israeliti epurazione”) è stato possibile individuare i seguenti 9 nomi di soci “epurati”.
Ajò Bruno (classe 1921)
Enriques Giovanni (classe 1905)
Morpurgo Luciano
Piperno Guido (classe 1890)
Philipp Gustavo
Segre Aldo
Sermoneta Umberto (classe 1904)
Sonnino Marco (classe 1914)
Terracina Mario (classe 1925)
Tali nominativi sono desumibili principalmente da due fonti documentali: i moduli delle domande di iscrizione respinte nel periodo 1938-1942 e quelli delle domande di “riammissione” presentate nel 1944, dopo la Liberazione della Capitale.
Spicca fra le altre la domanda di iscrizione alla Sezione come socio ordinario presentata il 18 ottobre 1938 da Giovanni Enriques (classe 1905), autorevole ingegnere originario di Bologna che legherà la sua lunga e ricca vita professionale sia alla Olivetti che alla Zanichelli. All’epoca già 1° Tenente degli Alpini, risultava “vecchio socio dal 1925” e con tessera n. 23216. Ma sul formulario predisposto dalla Sezione risultò che la madre, Luisa Coen, era di razza ebraica (sottolineato in rosso). E a nulla valse la specifica, sotto la voce “Religione al I° ottobre XVI”, di essere “sposato con Cosattini Emma, religioso e battezzato”; né la precisazione, dopo il Sì sotto la voce “Se discriminato ai sensi delle vigenti norme in materia di razza”, di “Squadrista nel 1921. Ufficiale Complemento Alpini Pilota Aviatore. Ha domanda in corso”. Sul frontespizio della sua domanda fu vergata a tutta pagina in diagonale con grandi caratteri rossi la scritta: “Ebreo non caricato”.
Ma dall’archivio emergono anche casi particolari, con specifiche per l’ammissione. Il 31 luglio 1939 presentò domanda di iscrizione come socio aggregato Giovanni Fiorentino (classe 1884 e vecchio socio). Utilizzò il nuovo modulo dove l’intestazione Club Alpino Italiano era stata sostituita dalla denominazione Centro Alpinistico Italiano e dove occorreva specificare, subito dopo il nome, di essere di “razza ariana”. Alla domanda – visto il cognome di possibili origini ebraiche – fu allegato il formulario dove si specificava che sia la paternità che la maternità erano di “razza ariana” e che la Religione al I° ottobre XVI era “cattolico romana”.
Il 4 settembre 1939, con nota 516, il Presidente della Sezione Guido Brizio scrisse invece al socio Gustavo Philipp:
“Rispondiamo alla Vostra del 2 corrente. Per disposizioni Superiori non possono appartenere al CAI persone di razza ebraica. Vogliate pertanto ritenere nulla la nostra richiesta relativa al pagamento della quota dell’Anno XVII”.
Il 5 dicembre 1939 presentò domanda di iscrizione come socio ordinario GUF Giorgio Milano (classe 1915). Anche in questo caso, considerato il cognome di possibile origine ebraica, sulla domanda fu riportato il numero della tessera del Partito Nazionale Fascista e si precisava: “Assicurato dell’appartenza alla Razza”. Venne anche allegato il formulario, con la specifica della paternità e della maternità di “razza italiana non ebraica”, così come di “nazionalità italiana non ebraica”.
Il 1° febbraio 1941 presentò domanda come socio GIL ordinario Mario Terracina (classe 1925). La dizione di “razza ariana” fu cancellata a matita e in calce al modulo si specificò che si trattava di un “socio discriminato” (ai sensi del Decreto del Ministero dell’Interno n. 785 del 1° giugno 1939).
Il 27 gennaio 1942 presentò domanda di iscrizione come socio GUF ordinario Mario Tagliacozzo (classe 1922). Anche in questo caso, considerato il cognome “sospetto”, nelle note fu riportata a stampatello la scritta “ariano” e l’indicazione di vedere il certificato accluso alla domanda.
In effetti era presente in allegato il Certificato di nascita, rilasciato il 2 novembre 1941 per uso scolastico, con sopra stampigliato il timbro:
“Al nome della predetta persona non risultano annotazioni di razza ebraica”.
Con data anni Quaranta (non leggibile per intero) è conservata infine una lettera inviata dal Vice Segretario della GIL, Augusto Gentili (già nel Consiglio direttivo della Sezione CAI dell’Urbe), alla Presidenza generale CAI:
“Vogliate prender nota che il nostro socio GIL ordinario, Morpurgo Alessandro, ha modificato il cognome in quello di Ballio Alessandro. Vi preghiamo di volerci inviare una nuova scheda a lui intestata”.
Una seconda fonte di documentazione, come accennato, sono le domande di “riammissione” presentate nel 1944, che consentono di evincere i nominativi di altri soci epurati nel 1939.
Con data generica 1944 c’è ad esempio la domanda di Guido Piperno (classe 1890) nelle cui note si precisa: “Iscritto anno 1931 (sospeso perchè ebreo)”.
Sempre con sola data dell’anno c’è la domanda di Marco Sonnino (classe 1914) “iscritto anno 1927 – riammesso perchè ebreo”.
Il 31 dicembre 1944 presentò domanda di iscrizione Luciano Morpurgo: “Iscritto anno 1916 (ebreo)”. Nello stesso giorno presentò domanda anche Umberto Sermoneta (classe 1904) “Iscritto anno 1926 (ebreo)”.
Il 30 gennaio 1945 fu la volta di Bruno Ajò (classe 1921).
Vi è, infine, una domanda senza data su modulo dove è tornata l’intestazione “Club Alpino Italiano” e la Sezione è “di Roma”. La presentò Aldo Segre (classe 1918) e nelle note si legge: “Iscritto anno 1935 – sospeso anno 1939 per epurazione”.
Come è evidente, la lista ricostruita è abbastanza scarna. Un’altra traccia, però, è stata individuata nel Libro primo dell’Albo sociale (che copriva il periodo dal 1873 al 1942). Dopo l’anno 1927, infatti, ci sono i nomi di alcuni Soci che sono segnati con pallini di colore blu o rosso e il riferimento “XII/939” (sottolineato in rosso). Una sorta di “spunta” con il richiamo alla data di “espulsione” del dicembre 1939. Pensando a quanto poi avvenne con il rastrellamento degli ebrei romani del 16 ottobre 1943, fa riflettere inoltre il fatto che accanto a quasi tutti i nomi di questi Soci sia specificato l’indirizzo di residenza (a riprova dell’avvenuta schedatura).
Questo l’elenco di 23 nomi che è stato desunto, con le relative notazioni:
Almagià Carlo (scritta “ebreo”)
Annecher Enrico – pallino blu
Belliani Wolfredo – pallino rosso
Bonarelli Riccardo – pallino blu
Borruso Gatano – pallino rosso
Caldera Mario – pallini rosso e blu
Carminiani Anita – pallini rosso e blu
Corrado Colombo – pallini rosso e blu
Crema Luigi – pallini rosso e blu
De Beer H Dora – pallini rosso e blu
Fantozzi Domenico – pallino blu
Formentini Domenico – pallini rosso e blu
Giannini Ferruccio – pallini rosso e blu
Guasti Luigi – pallino rosso (riammesso 19..)
Incisa della Rocchetta Mario – pallino rosso
Maurizi Angelo – pallini rosso e blu
Maurizi Giuseppe – pallini rosso e blu
Parisi Antonio – pallino blu
Pietromarchi Maria Teresa – pallino blu
Pincherle Alberto – pallino rosso
Salvadori Mario – pallino rosso (CAAI)
Serra Mario – pallino rosso
Silvestri Silvestro – pallino blu
I pallini colorati, però, potrebbero avere anche motivazioni diverse. Quindi una conferma – e un’auspicabile integrazione della lista dei soci “epurati” – può venire solo da testimonianze familiari dirette, auspicabilmente da raccogliere all’interno della Comunità ebraica di Roma o in ambiente alpinistico. Come è in parte avvenuto con i tre casi di approfondimento illustrati qui di seguito.
I “casi” Franchetti, Segre e Ajò-Iannetta
Anche tra i soci ebrei “epurati” dalla Sezione dell’Urbe, così come era avvenuto a livello nazionale, vi furono delle personalità che pure avevano rivestito ruoli importanti nel Sodalizio e costituivano delle figure di spicco del mondo alpinistico e speleologico romano (e non solo).
È il caso di Carlo Franchetti, “ebreo per parte di padre”, che figurava nell’elenco degli ufficiali ebrei posti in congedo assoluto ed era già stato espulso dalla Società Geologica Italiana a seguito del censimento razzista effettuato nel secondo semestre del 1938 e mirato alle “persone di razza ebraica che facciano parte delle Accademie e degli Istituti di cultura”.
Va poi ricordata la già citata figura di Aldo Giacomo Segre (classe 1918), del quale è presente nell’Archivio della Sezione capitolina una domanda senza data, su modulo “moderno” dove è tornata l’intestazione “Club Alpino Italiano” e la Sezione è tornata a chiamarsi “di Roma”. Nelle note del modulo si legge: “Iscritto anno 1935 – sospeso anno 1939 per epurazione”.
Una terza personalità del mondo alpinistico e speleologico del Centro Italia che fu colpita dall’epurazione fu Enrico Iannetta (il cognome originario era con la J, ma fu forzatamente variato negli anni Cinquanta dal “Servizio meccanografico” del Comune di Roma) già iscritto alla SUCAI e partito a 26 anni per il fronte nella Prima guerra mondiale (come Sottotenente negli Alpini e tornato a casa con due medaglie d’argento). Iannetta – considerato lo “scopritore” del Paretone del Gran Sasso e valente esploratore del Circolo Speleologico Romano – abbandonò la Sezione nel 1939 dopo l’espulsione della moglie ebrea, Agnese Ajò, che aveva conosciuto proprio durante un’escursione in montagna.
Il nipote di Agnese, Giorgio Ajò, ci ha gentilmente inviato alcune bellissime fotografie d’epoca. Anche suo padre, Renzo, e molti altri membri della famiglia Ajò erano iscritti alla Sezione di Roma.
Sandro Iannetta, figlio di Enrico, ci ha fornito invece le foto delle tessere CAI di Agnese Ajò e di Enrico Iannetta ed ha condiviso i suoi ricordi personali:
“Dalle vaghe allusioni ai fatti dell’epoca, che una certa ritrosia familiare tendeva a sminuire, ho dedotto che mio padre si risentì non tanto per il dimissionamento di mia madre dal Centro Alpinistico Italiano, cosa che gli apparve dovuta a “ragioni di forza maggiore” – e che comunque gli appariva come un’inezia rispetto a ben altre persecuzioni – quanto per il fatto che il “nuovo” Club Alpino Italiano del dopo Liberazione non si era preoccupato in alcun modo di reintegrare con mille scuse i soci cacciati per questioni razziali, come altre associazioni avevano fatto.
Comunque, ripeto, nei ricordi di quegli anni terribili la vicenda CAI assunse un aspetto relativamente irrilevante. Mio padre Enrico, nonostante le apparenze, aveva un carattere piuttosto mite e accomodante e così ha finito per attribuire ad una certa “confusione” la vicenda dell’espulsione. Per questo, dopo una pausa di qualche anno, si è nuovamente iscritto alla Sezione CAI di Roma, ha ripreso a frequentarla assiduamente ed ha iscritto anche noi figli sin da piccoli. Mia madre Agnese, invece, non si è più iscritta, ma credo più per inerzia che per motivi ideologici.
Si erano conosciuti al CAI, ma mia madre non aveva mai svolto un’attività alpinistica degna di considerazione. Agnese Ajò proveniva da una famiglia ebraica di 10 figli, molti dei quali iscritti al CAI, una famiglia tendenzialmente laica e molto aperta. Il poeta Trilussa, che frequentava le zie più grandi, aveva dedicato loro il componimento: “Avevo un gatto che si chiamava Ajò”. La nonna materna era una Finzi di Ferrara e si era salvata dal rastrellamento grazie ad una telefonata anonima di un poliziotto (mai identificato) che l’aveva avvertita di fuggire di casa”.
Questa la poesia scritta da Trilussa nel 1940
L’affare de la razza
Ciavevo un gatto e lo chiamavo Ajò; ma, dato ch’era un nome un po’ giudio, agnedi da un prefetto amico mio po’ domannaje se potevo o no: volevo sta’ tranquillo, tantoppiù ch’ero disposto de chiamallo Ajù.
– Bisognerà studià – disse er prefetto -la vera provenienza de la madre… -Dico: – La madre è un’àngora, ma er padreera siamese e bazzicava er Ghetto;er gatto mio, però, sarebbe natotre mesi doppo a casa der Curato.
– Se veramente ciai ‘ste prove in mano,- me rispose l’amico – se fa presto.La posizzione è chiara.:.- E detto questofirmò una carta e me lo fece ariano.- Però – me disse – pe’ tranquillità,è forse mejo che lo chiami Ajà.
Il CAI tra caduta del fascismo e dopoguerra
Dopo il 25 luglio 1943, con l’arresto di Mussolini, il Governo Badoglio assegnò il CAI alle dipendenze del Ministero dell’Educazione Nazionale. La protesta del Sodalizio e del Ministero della Guerra, che lo reclamava sottolineando l’importanza militare del patrimonio di rifugi alpini sulla frontiera, riuscì nell’intento e quest’ultimo nominò il 1° settembre 1943 come Reggente del Sodalizio Guido Bertarelli. Con l’occasione la Sede Centrale, già a Roma, fu trasferita a Milano “perchè residenza del Reggente stesso e centro dell’attività alpinistica nazionale”.
Il CAI proclamava di essere “integro nella propria struttura patrimoniale, spirituale e organizzativa” e di aver riacquistato la sua “completa indipendenza”. Si annunciò la convocazione di un Consiglio centrale e di elezioni per mettere mano ad un nuovo Statuto. L’incarico “venne assolto nel febbraio 1944 dalla Reggenza, ma le speranze avute di poterlo subito discutere ed applicare andarono deluse, da un diniego perentorio”. Del resto la situazione si era modificata con il sopraggiungere dell’Armistizio dell’8 settembre 1943, che vide l’Italia – e con essa il CAI – spezzata in due dalla linea del fronte tra tedeschi occupanti e Alleati in risalita da Sud.
Bertarelli assumendo la carica nel 1944 tenne un discorso accorato:
“Richiamate tutti agli entusiasmi e alla simpatia verso le montagne e al sentimento della natura, ispiratori di alto valore. Stiamo tutti uniti e concordi: riprenderemo con vigore nuovo”. La Presidenza generale, oltre che da Bertarelli, era formata da due Vice Reggenti: Guido Alberto Rivetti (Biella) e Carlo Chersi (Trieste). I consiglieri di Roma erano Guido Brizio, il geometra Riccardo Bonarelli e il dr. Alfredo Messineo.
Da parte sua il regime fascista nel febbraio del 1944, con la creazione del Governo della Repubblica Sociale Italiana, passò la competenza sul CAI al Ministero della Cultura Popolare (Direzione del Turismo e dello Sport), lasciando al Ministero della Guerra il “patronato” sui rifugi. Il Ministero della Cultura Popolare tentò, invano, di nominare un Presidente CAI con tessera fascista e – cosa che rifiutarono di fare sia Bertarelli (Tenente Colonnello degli Alpini di complemento) che il Segretario Eugenio Ferreri (1° Capitano degli Alpini e Accademico del CAI) – disposto a prestare giuramento alla R.S.I. Il Ministero evitò comunque qualsiasi conferma del Reggente Bertarelli, che anzi fu preso violentemente di mira dalla stampa fascista.
Profittando di questo stato d’animo ministeriale ostile verso il CAI, il CONI riuscì ancora una volta, “con una manovra segreta”, ad ottenere un progetto di decreto che ripassava il Sodalizio sotto la propria giurisdizione. Fortunatamente “gli eventi non permisero l’attuazione di questo tentativo, il secondo in due anni”.
Nei primi mesi del 1945, in vista della Liberazione dell’Italia, il Reggente Guido Bertarelli così si rivolse ai Consiglieri centrali e ai Presidenti delle Sezioni (come riportato nel libro “1863-1963 I cento anni del Club Alpino Italiano”):
“Nessuno ha abbandonato il campo: le Sezioni incassano i colpi con stoica fermezza e riprendono il cammino. (…) Le file del CAI devono essere mantenute salde in mezzo alla tempesta, in questo siamo tutti unanimi e per questo lavoriamo e proviamo una grande soddisfazione a dare la nostra fatica. (…) Tutte le tendenze alpinistiche si sono fuse, nell’ora della lotta, per il bene essenziale del CAI – la sua vita stessa – ed è con viva gratitudine che potrei citarvi esempi di colleghi che non hanno esitato un istante su ciò. (…) Tutti ebbero un sentimento unico: per l’Italia il CAI è un’istituzione spirituale e di reale importanza nazionale, per gli entusiasti della montagna è la famiglia grande che tutti accoglie ed educa a nobili ideali. Tali ideali sono i nostri da molti anni: noi li propugnano con energia e li difenderemo nella risorgente continuità futura della grandezza del CAI mercé l’opera nostra attuale sta la nostra ricompensa, quella che ambiamo ottenere”.
E in un successivo appello pubblicato nel fascicolo di marzo 1945 del Notiziario:
“Alpinisti, tenetevi uniti e concordi in questi tempi per essere pronti e solleciti al momento della ripresa, quando potrete, in serenità d’animo, riprendere la via delle amate montagne”.
A Liberazione avvenuta, il 3 maggio 1945, Bertarelli ritenne opportuno rimettere al Governo nazionale il suo mandato di Reggente, presentando una “Breve relazione ufficiale” al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia nella quale sottolineava con orgoglio l’apporto dato da molti soci del Sodalizio alla Resistenza:
“Alcuni giornali fascisti repubblicani denunziarono il CAI come complice dei partigiani. In verità, i 380 rifugi delle Alpi e dell’Appennino furono i quartieri generali migliori per la lotta. I custodi dei rifugi del CAI e le guide del CAI furono attivi partecipanti e cooperatori dei patrioti nelle operazioni, e nei collegamenti dalla pianura alla montagna, da valle in valle con la Svizzera e coi partigiani francesi. Purtroppo, 60 rifugi furono distrutti da reparti tedesco-fascisti, col triste fatto a tutti noto in Milano dei 10 rifugi bruciati dalle SS in Valsassina. (…) II distintivo del CAI portato con ostentazione dai Soci fu attaccato dal giornale “La Sera” come antifascista e si ebbero inchieste a Milano, a Saronno e a Torino. I Presidenti delle Sezioni di Mondovì e di Saluzzo, imprigionati dai tedeschi al principio del 1944, furono deportati in Germania; nel campo di Bolzano, il Segretario della Sezione UGET di Torino. (…) La partecipazione al movimento insurrezionale fu larghissima, in tutte le zone, per parte di accademici (ricordiamo particolarmente il Generale degli Alpini Luigi Masini, comandante delle Fiamme Verdi della Valcamonica e delle Orobie, coadiuvato da altri accademici), di Soci, di Guide e di Custodi di Rifugi”.
Tra i più forti alpinisti del CAI impegnati nella Resistenza spicca Ettore Castiglioni, attivo dopo l’armistizio sull’Alpe Berio per aiutare antifascisti ed ebrei a riparare in Svizzera, che si immolerà il 12 marzo 1944 sul Passo del Forno.
L’8 giugno 1945, il Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia nominò Commissario il Generale Luigi Masini, Accademico CAI, 1° Comandante della Scuola Centrale Militare di Alpinismo, Comandante delle Fiamme Verdi Partigiane della Valcamonica e delle Orobie. La nomina fu “convalidata” dal Comando Alleato.
Il 20 luglio 1945, con la cessazione della Reggenza, Guido Bertarelli scrisse una lettera ai Presidenti delle Sezioni e ai soci del CAI:
“Abbiamo avuto una sola ambizione, quella di portare il CAI fuori della burrasca, tenendolo lontano da ogni ingerenza politica fascista repubblicana, contenendone l’organizzazione nei suoi limiti prettamente tecnici, salvando gli ideali sociali ed il patrimonio. Il Consiglio Generale (che si è riunito frequentemente) stabilì, in linea di massima, di declinare ogni conferma o ratifica del Governo Repubblicano Fascista per tutte le cariche centrali e periferiche. Nessuna di esse fu, infatti, ordinata o ratificata da fuori del CAI. D’altronde, il Reggente non chiese mai alcuna ratifica al suo operato. Di fronte al rifiuto del Reggente di prestare giuramento, il Ministero della Cultura Popolare si era preoccupato di nominare un Presidente rep. Fascista (marzo 1944), ma vi rinunciò in seguito, dopo aver esperimentato i dinieghi e l‘ambiente afascista del CAI ostile ad ogni ingerenza.
Furono mesi di ansioso lavoro, giacchè per la Reggenza non era tanto difficile fare il proprio dovere quanto discernere qual era il dovere da compiere. Abbandonare il campo ai nazi-fascisti? Si ritenne meglio impedire la rovina del CAI, resistendo sulle posizioni e tutelando le Sezioni ed il patrimonio. Escluso ogni contatto coi Tedeschi, ignorando ufficialmente anche il Commissario tedesco dell’Alto Adige e della Venezia Tridentina, si cercò di salvare il salvabile e di mantenere la compagine con energia, mirando alla rinascita futura della Patria. Le distruzioni gravi di 60 rifugi alpini da parte dei nazifascisti, i saccheggi ed i vandalismi di ogni genere non abbatterono la fiducia, anche quando alcune Sedi sezionali vennero danneggiate”.
Nel numero di luglio-agosto 1945 del Notiziario “Le Alpi” si riferisce dell’esito positivo del referendum per il ripristino del nome “Club Alpino Italiano”:
“Com’era da prevedersi il referendum sociale per il ripristino del vecchio nome, è stato favorevole con una larga maggioranza. Ad eccezione di due Sezioni nelle quali i Soci con vasta prevalenza si pronunciarono per la dizione “Centro Alpinistico Italiano”, in tutte le altre si ebbe l’unanimità od una percentuale altissima a favore della vecchia denominazione, che ritorna così in vita attraverso il volere dei Soci. Le Sezioni Centro-Meridionali da circa un anno si erano pure espresse in tal senso”.
Il 13 gennaio 1946 fu convocata a Milano l’Assemblea generale dei delegati, alla presenza di 280 persone in rappresentanza di 408 delegati (sui 563 complessivi). Il Generale Masini declamò la sua relazione:
“La giornata odierna vede due avvenimenti molto importanti e molto lieti per la nostra associazione; il Club Alpino Italiano, nuovamente libero in quella libertà così desiderata dagli alpinisti, si ritrova nell’Assemblea generale dei delegati, che da 17 anni più non era convocata, e vede nuovamente riunite tutte le Sezioni dalle Alpi, all’Appennino, alla Sicilia, dopo le tragedie della Patria e dopo lunghi mesi di separazione.
In questo momento di lietezza, il nostro commosso ricordo va innanzi tutto ai soci del CAI caduti in guerra e per la Liberazione d’Italia. Attraverso molti soci, guide e custodi di rifugi, il CAI ha dato un apporto considerevole alla lotta della Liberazione, e i suoi rifugi, distrutti o danneggiati, stanno a dimostrare quanta importanza avessero per i combattenti della libertà le nostre casette di alta montagna. Affluiscono al CAI giovani e anziani di ogni categoria sociale, senza richiedere quali vantaggi vengono loro concessi: essi hanno soltanto la aspirazione di venire incorporati in un ente dalle sane tradizioni, dai principi puri e dai fini ideali, per salire verso le grandi altezze ove si respirano la serena aria della libertà e lo spirito delle sane conquiste del bello e della gioia”.
Nella lunga relazione non si fa alcun cenno alla vergognosa epurazione dei soci ebrei.
La Sezione di Roma tra caduta del fascismo e dopoguerra
Cosa avvenne, invece, nella Sezione capitolina? Dalle cronache CAI si evince che il Reggente Generale Guido Bertarelli – in data indefinita e con modalità informali – conferì al ragioniere Guido Brizio la Reggenza per le Sezioni Centro-Meridionali
Si legge infatti in un trafiletto sul Notiziario “Le Alpi” di maggio-giugno 1945:
“II 10 giugno 1944, dopo l’interruzione delle comunicazioni con Milano per effetto della Liberazione di Roma, come dall’incarico datogli in precedenza dal Reggente Generale, dott. Guido Bertarelli, il rag. Guido Brizio (Consigliere centrale e Presidente della Sezione di Roma) assumeva la Reggenza per le Sezioni Centro-Meridionali e costituiva il seguente Comitato: prof. Filippo Arredi, Fernando Botti, ing. Pino Coleschi, ing, Marcello del Pianto, ing. Carlo Landi Vittori, avv. Guido Mezzatesta, dott. Antonio Messineo, Virgilio Ricci, avv. Raffaele Vadalà Terranova. (Da notare che Arredi, Botti, Coleschi e Mezzatesta erano già nel Consiglio direttivo della Sezione CAI dell’Urbe durante il periodo fascista). Tale Comitato svolse con molto tatto ed appassionata attività i seguenti compiti: prendere contatto con le Sezioni delle zone liberate, e man mano con quelle che si andavano liberando; esaminare la situazione dei dirigenti le varie Sezioni, nominando Commissari o promuovendo le varie Assemblee; amministrare il fondo cassa esistente in Roma e provvedere all’ordinaria amministrazione delle Sezioni che avrebbero ripreso a funzionare. Nonostante le molte difficoltà d’ogni genere, il rag. Guido Brizio e i suoi collaboratori, con l’aiuto dei Presidenti sezionali, riuscirono a ricollegarsi con numerose Sezioni che hanno ripreso a funzionare o sono in corso di ripresa. Fino ad ora, hanno svolto un regolare tesseramento le Sezioni di Roma (con 1.000 soci che già hanno rinnovato la quota; si prevedono 1.800 iscritti entro l’anno), Pisa, Lucca, Prato, Firenze, Sesto Fiorentino, Camerino, Chieti, Napoli, Ascoli Piceno, Cava dei Tirreni, Bari, Cosenza, Messina, Reggio Calabria, Catania, quest’ultima con oltre 600 soci e con nuove Sottosezioni a Nicolosi, Linguaglossa, Zafferana Etnea e Jonia. Si è ricostituita la Sezione di Frosinone, mentre sono sorte le nuove Sezioni di Montecatini e Val Cosa”.
Dal libro dei verbali risulta che Brizio il 23 giugno 1944 pensò bene comunque di rassegnare le dimissioni da Presidente della Sezione di Roma. Il Consiglio ne prese atto il 4 luglio e il 28 luglio 1944 fu nominato Commissario straordinario l’avvocato Carlo Manes che tenne la relazione di insediamento il 5 settembre 1944. Come Vice Presidente fu indicato l’avvocato Guido Mezzatesta e Segretario Mario Federici. Nel giugno 1945 Bertarelli tenne un incontro a Roma con la Reggenza Centro-Meridionale “trattando problemi generali del CAI: a nome del Commissario Masini, egli espresse al rag. Guido Brizio ed ai suoi collaboratori la gratitudine dell’Associazione per l’ottimo lavoro svolto in condizioni cosi difficili”.
Gratitudine ribadita da Bertarelli nella sua lettera di commiato scritta il 20 luglio 1945 ai Presidenti delle Sezioni e ai soci del CAI, dove si legge:
“Mentre il CAI nell’Italia Centro Meridionale, grazie alla Reggenza di Roma, tenuta dal rag. Brizio, poteva esplicare liberamente il suo operato e ridar vita a buon numero di Sezioni, in Alta Italia la nostra Istituzione dovette superare notevoli frequenti difficoltà politiche ed ambientali”.
La Reggenza di Brizio fu citata anche dal Generale Masini il 13 gennaio 1946 nel suo intervento all’Assemblea Generale dei delegati tenuta a Milano:
“Nello stesso periodo, al di là della Linea Gotica, nell’Italia già liberata, il CAI riprendeva la sua attività, secondo i nuovi principi democratici; sotto la guida del rag. Brizio, Reggente per le Sezioni Centro-Meridionali, e dei suoi collaboratori, si svolgeva un’intensa azione ricostruttiva, che ha permesso di ricongiungere in piena efficienza quel settore dell’alpinismo italiano al tronco maggiore dell’Alta Italia. Al rag. Brizio e ai suoi colleghi dobbiamo essere molto riconoscenti”.
Fu compiuto così il rapido “sdoganamento” della controversa figura di Guido Brizio, riabilitato nel Sodalizio senza che alcuno facesse notare la complice sudditanza al regime fascista – evidenziata durante tutta la sua Presidenza – soprattutto con l’applicazione delle “leggi razziali” e l’epurazione dei soci ebrei a Roma. Anche in seguito non fu compiuto alcun gesto di scuse, né di riparazione o di risarcimento morale. Risulta solo che diversi soci ebrei presentarono una nuova domanda di iscrizione e furono riammessi al Sodalizio.
Ma a paradossale coronamento dell’oblio di ogni responsabilità personale, negli anni Cinquanta fu dedicata alla memoria (corta) di Guido Brizio una via ferrata realizzata dalla Sezione CAI di Roma, in collaborazione con quella aquilana, nel gruppo del Gran Sasso d’Italia. Così ne ricostruisce la genesi Carlo Landi Vittorj in un articolo pubblicato sul Fascicolo 1-2 della Rivista mensile del CAI del 1955:
“Nel 1937 la Sezione di Roma dava incarico all’allora Segretario G.B. Fabjan di fare una ricognizione per vedere se era possibile tracciare una via possibilmente in quota sulle rocce della parete Nord del Corno Grande che costituiscono il lato sinistro orografico del Vallone dei Ginepri”, in modo da evitare il passaggio obbligato del Passo del Cannone.
“Il tracciato fu studiato e trovato realizzabile – prosegue Carlo Landi Vittorj – ma non se ne fece nulla dapprima per per la solita questione dei fondi, poi per il sopraggiungere della guerra. Finalmente nel 1953, la Sezione di Roma, lodevolmente decideva di realizzare la via ferrata che veniva intitolata all’indimenticabile socio Guido Brizio e dava incarico a Domenico D’Armi, del CAI dell’Aquila, noto arrampicatore e profondo conoscitore del gruppo, di sorvegliare i lavori per la messa in opera di un primo gruppo di scale e corde. Ho percorso il sentiero, al quale attualmente mancano la maggior parte delle opere di protezione e posso assicurare che si svolge in un ambiente quanto mai suggestivo e grandioso. (…) Allorchè la via, che è percorribile solamente se sgombera di neve o ghiaccio, sarà completata e resa sicura con la messa in opera di ulteriori scalette e opere fisse, consentirà una notevole economia di tempo, e cosa assai apprezzata dagli alpinisti reduci da una faticosa arrampicata, eviterà la pesante salita dei 250 metri occorrenti per raggiungere il Passo del Cannone. Nelle condizioni attuali – concludeva Landi Vittorj – la via Brizio è percorribile solo da persone pratiche di montagna”.
Sul numero 5 del 1955 della rivista della Sezione CAI di Roma “L’Appennino”, nel capitolo dedicato all’Attività sezionale, fu riportata la notizia che il Consiglio presieduto dal Conte Datti nella seduta del 4 luglio 1955 aveva “approvato il preventivo di spesa compilato dal Presidente della Sezione CAI dell’Aquila per il completamento del Sentiero Brizio”.
Nella pagine successive fu pubblicato un articolo più esteso, dal titolo “La via ferrata Guido Brizio”, che faceva il punto della situazione:
“Conseguentemente alla disposizione presa dal Consiglio, la definitiva sistemazione del sentiero Guido Brizio al Gran Sasso d’Italia venne affidata alla Sezione dell’Aquila che, ultimati i lavori, per i quali è occorsa una spesa intorno alle 200 mila lire ha rimesso alla nostra Sezione la relazione che qui sotto riproduciamo. Nel ringraziare la Sezione aquilana della fraterna collaborazione teniamo a far rilevare che la definitiva sistemazione data al sentiero si scosta in qualche punto da quella primitivamente iniziata.
La relazione mette in evidenza il nuovo tracciato e viene ad integrare la descrizione del sentiero fatta dal consocio Ing. Landi Vittorj nel fascicolo di gennaio-febbraio 1955 della Rivista mensile del CAI. Aggiungiamo che per il totale completamento della “strada ferrata Brizio” resta da sistemare il tratto: innesto del Vallone dei Ginepri-Corno Piccolo, al quale sarà provveduto in tempo per l’inaugurazione dell’intero sentiero, fissata al 9 ottobre p.v.”.
La relazione descriveva in modo dettagliato il tracciato aggiornato e alla fine aggiungeva un bilancio sintetico dei materiali che erano stati utilizzati:
“Per il fissaggio completo dei passamani delle scale e delle staffe è stato necessario fare circa n. 100 buchi nella roccia. Riepilogando i materiali posti in opera sono stati i seguenti: metri 58 circa di passamano in tondino di ferro (fissato alla roccia mediante perni a muro posti ad una distanza di circa 80-90 cm tra di loro), n. 7 staffe, n. 2 scalette in ferro, n. 1 paletto (tubo trafilato). Il materiale è stato pitturato con vernice antiruggine. È stato migliorato, infine, tutto il sentiero fino all’uscita sul Vallone dei Ginepri”.
Sul successivo n. 6 del 1955 della stessa rivista della Sezione CAI di Roma fu pubblicato un articolo dedicato alla “Inaugurazione della via ferrata Guido Brizio”:
“In occasione del raduno dei direttori di gita al Gran Sasso, è stata organizzata una gita sociale che doveva culminare con la inaugurazione della Via ferrata Guido Brizio. Il cattivo tempo ha peraltro impedito che la manifestazione alpinistica si compisse. La comitiva, composta di 52 partecipanti, dopo aver affrontato la movimentata ascensione funiviaria notturna fino a Campo Imperatore, fra impetuose raffiche di vento, di pioggia e di nevischio, solo per andare a passare una notte disagevole fra gli ululati del vento e lo stillicidio delle acque penetranti persino nelle camere dell’albergo, ha ugualmente celebrato la rituale inaugurazione della Via ferrata, ascoltando, alla presenza del figlio del compianto vecchio Presidente della Sezione di Roma il discorso pronunciato dal Conte Datti”.
Nell’articolo si ricorda “come nella seduta del 6 maggio 1952 il Consiglio Direttivo della Sezione, presa in esame la proposta di onorare la memoria del compianto Guido Brizio con una opera che ne perpetuasse il ricordo, dopo ampia discussione, decidesse la costruzione di una Via ferrata al Gran Sasso”.
Infine il “curriculum dell’Uomo che si commemora” tracciato dal Presidente Datti:
“Guido Brizio, nato a Pavia e trasferito per motivi di lavoro a Trieste, si iscrisse a quella Sezione del CAI della quale fu consigliere nel periodo dell’irredentismo, tenendo alto con la sua opera il buon nome d’Italia. Trasferitosi da Trieste a Roma, nel 1920 si iscrisse alla nostra Sezione dove entrato a far parte del Consiglio iniziò la sua lunga, proficua ed indimenticabile attività, facendosi fra l’altro promotore dell’ESCAI, che grazie a Lui ebbe una vita molto fiorente fino al 1925 quando tutte le attività giovanili vennero incorporate nelle organizzazioni del passato regime. Nel 1943 divenne Presidente della Sezione e Consigliere Centrale”. Quello all’ESCAI è l’unico riferimento al “passato regime”, mentre per il curriculum di Guido Brizio si assiste ad un incredibile salto temporale.
La descrizione del Presidente Datti, infatti, riprende dal dopo liberazione di Roma:
“In tale veste ebbe l’incarico di reggere le Sezioni dell’Italia Centro-meridionale mano a mano che le varie città venivano liberate. E svolse tale compito fino al 1945, coadiuvato da un Consiglio composto di vecchi soci di provata fede e suoi carissimi amici. Quando, soprattutto per motivi di salute, abbandonò ogni carica rimase costantemente vicino al nostro sodalizio. Nessuno di noi dimenticherà le sue visite in Sezione nell’ultimo periodo della Sua vita: voleva sapere sempre cosa si faceva, che cosa si intendeva fare, e non tralasciava occasione per dare il Suo prezioso parere. Fu quindi doverosa la deliberazione presa di onorarlo con un’opera che portasse il Suo nome”.
Nell’articolo si ricostruisce anche tutta la travagliata vicenda della costruzione della ferrata, con lunghi stop ai lavori e i costi dell’opera quasi raddoppiati:
“Il 22 luglio 1952 il Consiglio aveva dato incarico al Consigliere Tosti di fare un preventivo di spesa e di studiare la realizzazione della Via ferrata in collaborazione con gli amici del CAI dell’Aquila, preso atto che si sarebbe potuta realizzare con una spesa di L. 250.000, ne autorizzò la costruzione dando mandato allo stesso Tosti di eseguire i lavori. Il 10 ottobre 1952 fu comunicato al Consiglio che la Via era tracciata e che si doveva provvedere alla posa in opera delle opere in ferro. La spesa sostenuta dalla Sezione si aggirò sulle L. 200.000, ma praticamente la sistemazione vera e propria della via ferrata non fu completata, anche per le difficoltà rappresentate dal cattivo tempo. Nel luglio del corrente anno (1955) il Consiglio Direttivo, preso atto del pericolo che la mancata definitiva sistemazione del sentiero poteva rappresentare per gli alpinisti di passaggio, affidava agli amici dell’Aquila e per essi al Presidente Nestore Nanni il mandato di completare il sentiero. Per questa opera la Sezione sostenne una ulteriore spesa di circa L. 250.000”.
E Datti concludeva: “Oggi che il lavoro è compiuto sentiamo il dovere di ringraziare tutti gli amici che si prestarono con non indifferenti sacrifici per la sua realizzazione e in special modo il Presidente della Sezione dell’Aquila e tutti coloro che in un modo o nell’altro diedero il proprio contributo. Ed è con orgoglio e commozione che dichiaro aperta ufficialmente la Via ferrata Guido Brizio alla cui memoria vi invito ad osservare un minuto di silenzio ed assicuro il caro Dario degno figlio del nostro indimenticabile Amico e la di lui consorte che i Soci del CAI di Roma di oggi e di domani non dimenticheranno mail il vecchio Presidente”.
Alla fine della cerimonia “la comitiva, approfittando di una provvidenziale pausa delle intemperie che ristabiliva la possibilità di utilizzare la funivia, ha preso la via del ritorno. Dopo avere ascoltato la Santa Messa a suffragio di Guido Brizio, celebrata, con suggestiva inquadratura, da Mons. Franz Norese, nella sala di aspetto della stazione della funiviaria di Assergi, i gitanti si sono diretti verso l’Aquila dove erano attesi dal Presidente di quella Sezione Nanni, che per l’inclemenza del tempo non aveva potuto raggiungere Campo Imperatore ed assistere alla cerimonia”.
Conclusioni e proposte
L’evento storico dell’epurazione dei soci ebrei dal CAI durante il fascismo è un argomento rimosso da qualsiasi riflessione o dibattito, sia pubblico che interno al Sodalizio, con una imperdonabile omissione. Finita la guerra non vi sono state scuse, né reintegro automatico delle centinaia di soci “epurati” per motivi razziali. Questo “muro del silenzio” è stato incrinato solo in epoca molto recente da alcuni studiosi (come Stefano Morosini e Alessandro Pastore). Il tema è infine riemerso, paradossalmente, per un improvvido e contestato accostamento fatto il 25 marzo 2020 dall’attuale Presidente Generale del CAI, Vincenzo Torti, che ha messo in parallelo due “emergenze” vissute dal Club Alpino Italiano: l’epurazione degli ebrei nel 1939 e quella attuale dell’epidemia da Covid-19.
Sul sito web ufficiale CAI, con sciatta superficialità, la “pagina nera” della dittatura in Italia viene esplicitata con queste poche righe di apparente normalità:
“Dopo l’inizio dell’avventura totalitaria fascista, il CAI, nonostante venga inquadrato d’autorità nel CONI e sottoposto al controllo diretto delle gerarchie del Governo, riesce a mantenere l’indipendenza della legalità democratica delle proprie istituzioni e deliberazioni, proseguendo nelle attività sociali con attendamenti, escursioni, opere alpine anche a favore delle popolazioni di montagna, rifugi e pubblicazioni, come riconosce il Presidente generale di nomina governativa Angelo Manaresi, che dichiara che “il suo programma l’ha sempre avuto davanti a sé, solo e schietto, nelle Alpi da percorrere e da scalare”, lasciando alle Sezioni quella autonomia “che è il segreto del loro fiorire”.
Peccato che sotto il regime fascista il CAI, a partire dal nome, non abbia assolutamente mantenuto “l’indipendenza della legalità democratica delle proprie istituzioni e deliberazioni” e peccato non si dica nulla sull’epurazione dei soci ebrei.
Non è da meno la Sezione CAI di Roma che sul proprio sito web nella pagina dedicata alla storia scrive sinteticamente:
“Nel 1927 è Presidente l’on. Giuseppe Bottai: nuova “intonazione politica”, per altro cameratismo fra i soci e spirito di solidarietà verso i valligiani. (…) Guido Brizio è Presidente dal 1939 al 1944. Nel 1941 il CAI passa alle dipendenze del Partito Nazionale Fascista. Nel settembre 1942 sono 292 i soci al fronte, lunga è la lista dei caduti”.
Cortissima invece – verrebbe da dire – la memoria sull’epurazione dei soci ebrei.
Ricerca nominativi per il reintegro come “Soci alla Memoria”
Appare quindi inderogabile una piena presa di coscienza da parte del CAI, che deve fare i conti sino in fondo con il proprio passato. Un’azione virtuosa, nel solco tracciato da questa ricerca, potrebbe essere quella di recuperare negli archivi delle Sezioni le informazioni necessarie per ricostruire i nominativi dei soci “dimissionati” nel 1939. Presidenza e Comitato Direttivo Centrale dovrebbero poi procedere ad un atto ufficiale di scuse – magari organizzando un evento in occasione della data del 5 dicembre, ricorrenza della famigerata “Circolare riservatissima” che nel 1938 applicava le “leggi razziali” nel CAI – avviando il reintegro d’ufficio senza pagamento di quota per i soci ebrei viventi. Quelli deceduti, invece, potrebbero essere inseriti, sempre a titolo gratuito, nella categoria dei “Soci alla Memoria” (istituita il 6 marzo 1945 dal Consiglio generale del CAI e dedicata a chi “già apparteneva all’Ente prima della morte, con l’iscrizione perpetua del suo nome nell’Albo dei soci della Sezione già di appartenenza”).
È da segnalare che il 16 settembre 2018 nella Sala degli Stemmi del Museo Nazionale della Montagna si è tenuto un concerto – in occasione dell’edizione 2018 di MITo Settembre Musica e nell’ambito del progetto della Città di Torino “A memoria: 1938-2018” – dedicato all’ottantesimo anniversario delle “leggi razziali” e incentrato sulla figura dell’alpinista musicista di famiglia ebraica Leone Sinigaglia (1868-1944). Gli allievi del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino hanno eseguito le sue musiche, mentre lo storico dell’alpinismo Roberto Mantovani e il maestro Massimiliano Génot hanno ricordato la figura di Sinigaglia in relazione alla sua passione per la montagna, “delineando il percorso di una vita conclusasi tragicamente a Torino durante l’arresto nel 1944 per mano della polizia nazista”.
Nel diffondere l’evento, il sito MountCity ha scritto: “Il 17 novembre 1938 venivano varate le famigerate leggi razziali che il CAI recepì nel suo Statuto l’8 maggio 1939 imponendo ai soci di qualsivoglia categoria l’appartenenza esclusiva alla “razza ariana”. Su questa ricorrenza era sembrato che, da parte del CAI, fosse finora gravata una certa damnatio memoriae. E invece a riaprire quella dolorosa parentesi arriva un concerto”. Purtroppo la “dolorosa parentesi” si è subito richiusa.
Eppure non sarebbe mai troppo tardi per un atto di doverosa “riparazione”. Un gesto ben più che simbolico, considerati i tempi attuali che mostrano rigurgiti di spinte razziste. Una decisione che, per altro, altri Enti e Istituzioni hanno preso anche di recente: ad esempio con la reiscrizione nell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, avvenuta a maggio 2020, di coloro che erano stati espulsi dalle leggi fasciste o con l’annullamento delle espulsioni – ratificato formalmente il 26 novembre 2020 – dall’Ordine degli Avvocati e dei Procuratori di Roma.
Cambio di denominazione della ferrata “Guido Brizio”
C’è, infine, un gesto molto concreto che potrebbe proporre e supportare la Sezione CAI di Roma: quello di cancellare un’intitolazione che “onora” impropriamente un personaggio che – come abbiamo avuto modo di ricostruire in queste pagine – fu il principale artefice (non inconsapevole, ma convinto esecutore) dell’applicazione delle “leggi razziali” nel mondo alpinistico della Capitale. Si tratta dell’allora Presidente della Sezione dell’Urbe del CAI, Guido Brizio, al quale è stata improvvidamente dedicata una delle principali “vie ferrate attrezzate” del gruppo appenninico del Gran Sasso d’Italia.
Ad esempio la via ferrata potrebbe essere intitolata ad un socio ebreo espulso all’epoca dal Sodalizio (come Agnese Ajò o Aldo Giacomo Segre), ad un altro Presidente della Sezione CAI di Roma (come Franco Alletto), ad alpinisti deceduti in tempi più recenti sul Gran Sasso (come la cordata Iannilli-D’Andrea), ad un toponimo locale (Vallone dei Ginepri) o ad un concetto/evento (come Libertà o Liberazione).
La replica della Presidenza CAI
In occasione della ricorrenza del Giorno della Memoria del 27 gennaio 2022, la Presidenza del Club Alpino Italiano ha diffuso il seguente comunicato:
Giorno della Memoria: fare i conti con il passato
per rimediare alle ingiustizie delle leggi razziali
Il Presidente generale del Club alpino italiano Vincenzo Torti sulle leggi razziali del 1938: «Una pagina tra le più esecrabili della storia del nostro Paese. L’obbligo di raccontare la verità è senza tempo».
Il Giorno della Memoria commemora in tutto il mondo le vittime dell’Olocausto ed è l’occasione di una riflessione anche per il Club alpino italiano, che negli anni del regime subì, come ogni organizzazione del nostro Paese, l’egemonia della cultura fascista. Già inglobato nel Coni, con il nome di Centro Alpinistico Italiano, dal 5 settembre 1938 anche il Sodalizio dovette attuare una serie di provvedimenti razziali che ebbero effetti tra le file dei suoi tesserati.
Fra loro vi erano escursionisti e alpinisti di ogni livello, uomini e donne, compresi alcuni personaggi di chiara fama. I casi più noti sono forse quelli del fiorentino Ugo Ottolenghi di Vallepiana, iscritto al Cai dal 1904 e socio del Club Alpino Accademico dal 1912, oltre che medaglia d’argento nella Prima guerra mondiale, e del compositore torinese Leone Sinigaglia, classe 1868, noto per la sua attività alpinistica e musicale, ma anche per essere stato testimone, in gioventù, della morte del principe delle guide del Cervino, Jean-Antoine Carrel, avvenuta nell’agosto del 1890.
A mitigare, almeno in parte, i nefasti provvedimenti antisemiti, fu però il comportamento di parecchi soci, incuranti delle leggi vigenti. Non tutti i tesserati del Cai, infatti, rimasero indifferenti alla cacciata di amici e compagni di cordata, e qualcuno si adoperò in favore dei soci discriminati dal fascismo. Tra i nomi più conosciuti, tra quanti si prodigarono per mettere in salvo gruppi di ebrei oltre confine, vanno ricordati quelli di Ettore Castiglioni – un’eccellenza dell’alpinismo di quegli anni – morto assiderato in alta Valmalenco nel marzo del 1944, nel tentativo di rientrare in Italia; ma anche quello di Gino Soldà, straordinario scalatore dolomitico e guida alpina. A questi vanno aggiunti tanti altri alpinisti che non sono mai giunti all’onore delle cronache e hanno operato in silenzio, in molte valli alpine e lungo la dorsale appenninica, quasi sempre nel più completo anonimato.
A distanza di molti anni, ciò che avvenne a partire nel 1938 è sicuramente da condannare al fine di riammettere pubblicamente gli espulsi, riabilitarne e onorarne la memoria. La fretta di ripartire e di voltare pagina dopo la guerra oggi non può più costituire e un alibi e una scusa per evitare di fare i conti con il passato. A ricordarci questo pezzo di storia del Cai è anche Lorenzo Grassi, giornalista autore del rapporto inedito “L’epurazione dei soci ebrei della Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano” che racconta dell’espulsione dal Sodalizio, a causa delle leggi antiebraiche, di almeno 150 soci. Il tema è stato approfondito da un articolo scritto da Stefano Ardito e pubblicato su Il Messaggero.
«L’obbligo di raccontare la verità è senza tempo – afferma Vincenzo Torti, Presidente generale del Cai – le leggi razziali sono una pagina tra le più esecrabili della storia del nostro Paese. Quello che subirono numerosi nostri soci fu una terribile conseguenza di leggi assurde e inaccettabili. Gli Organi di vertice del Cai stanno valutando specifici indirizzi per quelle Sezioni in grado di recuperare documentazioni e ricostruire quando accadde allora, per intervenire, per quanto possibile, a porre rimedio a queste gravi ingiustizie».
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Il lato oscuro di un meraviglioso patrimonio, Mountcity.it
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C’è bufera e bufera: forse è meglio schiarirci le idee, Mountcity.it
Ringraziamento
Desidero ringraziare di cuore, per la fondamentale e insostituibile collaborazione, l’amico Luca Grazzini che custodisce con tenacia, amore e passione la Biblioteca “Alberto Vianello” e l’Archivio della Sezione CAI di Roma (dichiarato “di notevole interesse storico” dalla Soprintendenza archivistica del Lazio). Un grazie di cuore anche all’amico alpinista e giornalista Stefano Ardito, che mi ha sostenuto nella divulgazione di questa ricerca.